Il paese di tutti Re

Hermanos #Alcatraz #JackFolla #Zombie #DiegoCugia sta per tornare!
C'era una volta un paese in cui per essere sinceri bisognava recitare, per scrivere la verità servirsi di una menzogna. Uno doveva cambiare nome, voce, inventarsi di essere un assassino, mettersi a gridare alla radio o su un giornale che era un condannato a morte e fra trecentotrentatré giorni sarebbe stato giustiziato, allora poteva dire la sua, oppure niente. Così potevi essere sincero altrimenti eri matto.
Era un paese nobile e antico, diventato, da una decina d'anni, feroce e ingenuo, due caratteristiche umane che si accoppiano nelle tragedie e nelle catastrofi: l'eruzione di un vulcano, il crollo di una diga o delle tribune di uno stadio, quando per salvarsi si calpestano ferocemente donne e bambini, ma in preda al panico si fugge ingenuamente nella direzione sbagliata, il luogo dell'esplosione, la bocca del cratere, le fauci del drago.
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Che cosa fosse veramente accaduto è difficile dirlo, chi dava la colpa alla tele, chi a un nano malefico o a entrambi, e chi a quelli che se la raccontavano così (ho già detto che erano tutti sia feroci che ingenui). Fatto sta che da un giorno all'altro la gente cominciò a guardarsi in cagnesco, a invidiarsi, a sparlare, a dirsi tu di qua io di là, e per qualche tempo ci si schierò sotto opposte bandiere, i Noi e i Loro, poi neanche quelle. Tutti indossarono la stessa casacchina, prodotta dalla stessa Multinazionale del Tutto Esaurito, ma su ciascuna c'era scritto Io, e per questo, con feroce ingenuità, tutti si credevano i re del mondo. Formarono partiti di re, sindacati di re, televisioni e giornali di re, lobby di re, mafie di re. Si adulavano per quanto denaro possedevano. Più dicevano banalità più si arrapavano. Se a qualcuno veniva un'idea intelligente o una parola d'oro lo mettevano al muro. I re poveri, la maggioranza del paese, non contavano una sega, facevano i sudditi, ma con la corona di cartone. Avevano un solo obiettivo: fare più soldi possibile e scalzare i re con la corona d'oro. Erano pronti a calpestare le proprie madri, mogli, bambini. Questo, da una decina d'anni, e non se ne vedeva la fine.
C'era una volta, e c'è ancora, un paese di tutti re. Un paese dove nessuno sapeva più, profondamente, che cosa significa noi. Se ci provava, gli veniva un raglio di uno o più io-io-io. Non posso dirvi come questa favola andrà a finire. Sono un re con la corona di carta extrastrong, posso permettermi di fare quello che mi pare e piace, anche tacervi, se lo sapessi, il finale. Così voi, che potete smettere di leggere, tanto lo sapete qual è il paese in cui "Ogni volta che torno" mi scrive un lettore, Andrea: "avverto la perdita di quello che era l'amore per la libertà di questo popolo. Giorno dopo giorno, a pezzi, come calcinacci di un muro. Era il popolo più raffinato del mondo, oggi un'accozzaglia di esseri stravolti, nevrotici, pieni di firme sui jeans, e occhiali da sole portati anche quando è sera o c'è nebbia. E sempre più autoritari e servili allo stesso tempo."
La mail mi è arrivata in questo istante. Mentre scrivevo "feroci e ingenui", Andrea precisava "autoritari e servili". Piccole parentele spirituali, collusioni emotive, ci si capisce senza essersi letti, senza conoscersi. Nel regno della comunicazione totale facciamo così fatica a trovare dei nostri simili che siamo stati costretti ad affinare la telepatia. Perché in quel paese dei re era precipitata anche la forma più elementare di cortesia. Telefonavi e rimanevano in silenzio. Scrivevi una partecipazione o mandavi un dono, e non ti rispondevano più neanche con un modestissimo grazie. Se non eri immediatamente funzionale ai loro onnipotenti desideri o interessi privati, sparivi. Se non eri allineato a qualcosa di ben più profondo che un partito o una linea politica, allineato a uno stile affaristico di esistere, o alla guerra fratricida per qualche corona di merda, diventavi invisibile. Nessuno ti diceva niente, si era liberi -dicevano- ma i re erano intenti ad allargare le loro sfere di influenza, ed erano sempre incasinati e stanchi. A un certo punto successe l'inverosimile: chi stava elemosinando o faceva la fila all'ufficio di collocamento, quando passava un re doveva consolarlo. Era già accaduto altrove. Qualcuno, per esempio, spariva. Ma dove l'hanno portato? chiedevano al portiere. "Non lo so, niente di grave. Ma certamente quello lì avrà combinato qualcosa." E allora nessuno poneva più domande, per non venire implicato.
Essere vivi, "anche percossi e curvi", come scrive Evtušenko in una sfavillante poesia contro il suicidio, "è un minuto cometa codaverde, rubato al grande carro d'universo. Ferma il coltello. Ridi!"
Io rido e mi fermo, smetto di essere un racconto, come ha sempre mentito la striscia qui in alto. In realtà non sono mai stato un racconto. Tranne ora. Ho cominciato quest'ultimo pezzo dicendo: c'era una volta un paese in cui per essere sinceri bisognava recitare, per scrivere la verità servirsi di una menzogna. Ma dieci anni fa non avrei neppure immaginato che sarei dovuto finire, per scrivere un normalissimo articolo, su una piattaforma petrolifera al largo di Gibilterra. O raccontarvi di una creatura meravigliosa di nome Jemima, che in questa stanza di Roma non si sarebbe mai sognata di suonare al campanello. La verità è brutta, non ha oceani né cormorani. Credo che ormai per raccontare l'Italia senza sporcarsi bisognerebbe essere il cieco Omero o un uccello dell'aurora. Ringrazio l'Unità che mi ha pubblicato. Ringrazio te che mi hai letto e sopportato. Certe parole come certe carezze sopravvivono ai re. 
Scritto da Diego Cugia JF3957@tiscali.it secoli fa.

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