La vera incredibile storia di José Pepe Mujica, presidente in Uruguay
(Video: Intervista a Josè Mujica "talk to Al Jazeera" sub ita)
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È impossibile che viva dove vive, che si vesta come si veste e che abbia avuto la storia che ha avuto. Pepe Mujica, il presidente uruguaiano, è l'uomo più senza cravatta di tutto l'universo.
Qui. José Mujica, presidente della Repubblica Orientale dell'Uruguay, vive qui.
All'entrata del rancho c'è una corda con appesi i vestiti di un bambino, povero; una casupola di mattoni grigi finita a metà, povera; un'accozzaglia di piante: juncos, yuyos, alti pascoli; un ettaro di terra appena arata; e cani, molti cani. Asinelli che vanno in giro con il passo lento degli animali vecchi e che ogni tanto cercano angoli d'ombra lì in fondo, dopo quegli arbusti, nella casa di José Mujica.
Lì. José Mujica, presidente della Repubblica Orientale dell'Uruguay, si riposa lì: nelle quattro stanze di pareti scorticate, con una cucina, una poltrona rossa, una cagna con tre zampe (la mascotte di Mujica è zoppa) e una stufa a legna. Da quel bassofondo austero, quasi marziale, quest'uomo è emerso infinite volte, prima come legislatore della nazione, poi come candidato presidenziale, a ricevere la stampa.
E ricevere, nel pianeta Mujica, è un verbo imperfetto. Mujica ha ricevuto giornalisti appena sceso dal trattore, senza la dentiera, con il pantalone arrotolato fino alle ginocchia e con una goccia di sudore che gli scende dal naso.
Mujica ha ricevuto giornalisti con una manata affettuosa e con questa frase: “Piantala di blaterare e vattene a lavorare, che di questo ha bisogno il paese”.
Mujica ha ricevuto giornalisti, in giorni di campagna elettorale, con le scarpe di corda ma senza denti (beh, ha fatto intere conferenze stampa senza denti), giocando con la sua cagna storpia e facendosi tagliare i capelli da uno sconosciuto che era andato a chiedergli lavoro.
Mujica ha ricevuto giornalisti la stessa mattina delle elezioni presidenziali e li ha ricevuti in pigiama, con la barba lunga e con le gengive che rimuginavano quest'unica frase: “Nonostante il rumore, il mondo oggi non cambierà”.
Quella, era la mattina del ventinove novembre 2009. E anche se il mondo non cambiò, quel giorno l'Uruguay cambiò rotta: con il cinquantadue per cento dei voti - vinti su Luis Alberto Lacalle in un ballottaggio - Mujica divenne il presidente più impensato dell'Uruguay e probabilmente della terra. Non solo per la sua austerità, portata all'esasperazione, ma per il suo passato, che non è altro che l'origine di tutto il resto.
Mujica aveva militato nel Movimento di Liberazione Nazionale Tupamaros (MLN-T), una guerriglia nata e rafforzatasi sulla scia della rivoluzione cubana; è stato incarcerato due volte in un carcere che oggi, miracoli della globalizzazione, è un centro commerciale; scappò da quel bagno penale con una delle fughe più spettacolari che annoveri la storia carceraria universale; vide troppi amici morire e fu sul punto di morire troppe volte; rimase dieci anni isolato in un pozzo durante la dittatura militare del 1973, dove sopravvisse alla possibilità della pazzia; e arrivata la democrazia festeggiò quella vita regalata nell'unico modo possibile: arando e militando. Questa volta, nella legalità.
Nel 1995, Mujica diventò il primo Tupamaro ad occupare un posto di deputato nazionale. Poi fu senatore. Poi diventò ministro. E alla fine del 2009 è diventato il primo “ex-guerrigliero” ad arrivare alla presidenza dell'Uruguay e a dare senso compiuto a una lotta ideologica per la quale si è immolata buona parte dell'America Latina.
- Pepe è riuscito ad arrivare fin qui, prima di tutto, perché è sopravvissuto - dirà qualche giorno dopo José López Mercao, compagno di Mujica nel carcere di Punta Carretas. - In secondo luogo, perché il movimento armato si guadagnò una buona reputazione presso la popolazione: rimase sempre l'idea che i Tupamaros erano brave persone. E infine, perché Pepe è sempre stato un tipo molto umano, molto innamorato, molto sveglio e molto austero.
Oggi Mujica si sposta in una Chevrolet Corsa abbastanza vecchia. Non usa la cravatta. Non ha un cellulare. Non ha una carta di credito. Proibisce ai funzionari del governo di usare Facebook o Twitter o qualsiasi altra cosa simile. Ha una moglie, la senatrice Lucia Topolansky, asceta come lui. E non vive nella residenza presidenziale, ma in questa fattoria dalla struttura precaria nel Rincón del Cerro: una zona rurale a venti minuti da Montevideo, dove la campagna è più una fatica che un luogo verde.
Mujica passa qui i suoi giorni dalla metà degli anni '80, quando uscì dal bagno penale con la certezza che sarebbe tornato alla politica e si sarebbe comprato una piccola fattoria, l'una e l'altra cosa insieme. Con lui, Lucia Topolansky, anche lei Tupamara, e terza carica della repubblica dell'Uruguay; Micaela, la sua cagna a tre zampe e due famiglie che, non avendo un posto migliore dove andare a sbattere, andarono a parlare con Mujica e ricevettero in cambio un pezzo di terra nella stessa fattoria (da qui la costruzione grigia ancora a metà; da qui i vestitini da bambino stesi); e due uomini in divisa ora si presentano all'entrata e dicono, cortesemente, quello che sono venuti a dirci: “Chieda un'intervista agli uffici del presidente”.
Da quando ha assunto la carica, Mujica, sino ad allora famoso per la sua disponibilità verso i giornalisti, ha concesso solo tre interviste e tutte allo stesso organo di stampa. La ragione è che i suoi addetti stampa sanno che Mujica parla come vive: senza cortesie e con la casa in costruzione, e ora che è un presidente, se ne vogliono prendere cura. Per questo interpongono filtri infiniti, e per questo, fra le altre cose, ci sono queste guardie, due tipi con il petto robusto, accompagnati da un cane labrador che si getta a pancia all'aria e riceve le mie carezze.
- Questa è la casa del presidente - dice uno.
- E inoltre, il presidente non c'è- dice l'altro.
- Ah - dico io.
Ci guardiamo in silenzio.
Dietro questi due uomini si vede il bucato, vestiti consumati che pendono da una corda, la casa mezza in costruzione, i giochi dei bambini sparsi per i pascoli. Ma quello che non si vede è il resto: l'immenso cumulo di dubbio che si staglia in questo scenario di insolita semplicità.
Perché José Mujica vive qui, questo è chiaro. La domanda è, com'è possibile? La domanda è, perché?
- Io non volevo che Pepe fosse presidente.
Julio Marenales è uno dei leader storici del Movimento di Liberazione Nazionale Tupamaros e Mujica lo considera 'un fratello'. Hanno militato insieme, insieme sono caduti nel bagno penale di Punta Carretas, insieme sono scappati, e insieme, anche se separati, in diversi istituti, hanno sofferto dieci anni rinchiusi nei pozzi delle caserme. La distanza fra Marenales e Mujica è comparsa in questi ultimi tempi: Mujica è andato avanti nella politica, mentre Marenales, anche se appoggia Mujica, è rimasto nell'organizzazione. Oggi rappresenta l'ala radicale ed è diventato una specie di controllore della purezza ideologica del Movimento.
- Pepe non può fare una presidenza con le idee che aveva come Tupamaro. Ha dovuto adattarsi. Si è conformato con il pensiero generale del Fronte Ampio, che è una forza in cui militano lavoratori ma anche imprenditori, e agli imprenditori piace il sistema capitalista. Quindi le idee che portò avanti anni fa il compagno Mujica adesso le tiene conservate, immagino, nel congelatore. Voglio dire: Pepe non ha intenzione di fare la rivoluzione. Il che non esclude che questo sia, e di molto, il miglior governo che abbia mai avuto questo paese.
Marenales sorride: non ha nemmeno lui tanti denti. C'è qualcosa che unisce i Tupamaros e i loro denti. Forse è il passare del tempo, ma forse nemmeno quello, il tempo è diventato un modo gentile di spiegare le cose. Marenales, in ogni caso, è sempre stato chiamato Il Vecchio. Ora ha ottantun anni, ma si trascina quel soprannome da quando ne aveva qualcuno in più di trenta. Allora insieme a Raul Sendic (leader massimo dell'organizzazione, già morto e oggi figura mitica) aveva fondato il Movimento che poi accolse Mujica e buona parte della cupola che oggi governa l'Uruguay.
Una storia molto breve, infantilmente breve, dell'MLN-T potrebbe essere più o meno così: i Tupamaros scesero allo scoperto pubblicamente nel 1966 in appoggio a una rivolta dei contadini della canna da zucchero (i lavoratori dipendenti più poveri dell'Uruguay) e in un contesto di pressione sociale forte: la fine del periodo post-bellico in Europa aveva portato con sé un aumento della produzione industriale nel Primo Mondo, e questo significava che l'America Latina aveva cominciato a riempirsi di prodotti importati e ad assistere alla débacle della propria industria nazionale. Verso il 1968 l'Uruguay smise di essere la “Svizzera dell'America” e si impantanò completamente nella melma latinoamericana: cominciarono i licenziamenti, i problemi dei gruppi corporativi, la militarizzazione degli spazi di lavoro e un indurimento delle maglie dello Stato che faceva intravedere il fantasma di un golpe militare.
In quel contesto sorse l'MLN-T: un'organizzazione armata che, incoraggiata dal trionfo di Fidel Castro a Cuba, credeva che la rivoluzione fosse un obiettivo possibile e vicino, e in pochi di mesi riuscì a creare una sua mistica ideologica. I simpatizzanti dell'MLN-T aumentavano. Questo era dovuto al fatto che i Tupamaros non avevano il grilletto facile e che cominciarono a intraprendere iniziative illegali che molte volte erano a favore delle classi povere. Oltre alle procedure standard (furti di armi, alle banche, svuotamento di finanziarie, sequestri di qualche ambasciatore, etc.) ogni tanto fermavano un camion di merci e le distribuivano fra la gente dei quartieri vicini.
Questa propaganda fece sì che l'organizzazione crescesse in modo esponenziale. Verso il 1971 il Movimento, che aveva cominciato con duecento membri, arrivò a cinquemila membri attivi, con un raggio di influenza di trentamila persone, e questo lo fece diventare il fenomeno di crescita più veloce nella storia di qualsiasi associazione politica. Fu quella crescita - e lo dicono loro stessi - che li rovinò. Con più membri cominciarono a esserci anche più errori. Nel momento in cui arrivò la dittatura militare - che in Uruguay si ebbe fra il 1973 e il 1985, con il colpo di stato di Juan Maria Bordaberry -, il Movimento era debole, con troppi morti sulle spalle, all'interno e fuori, e con molti attivisti in carcere. Il vertice militare approfittò di quella debolezza e scagliò il colpo più forte contro l'organizzazione: individuò i nove capetti dell'MLN-T e li isolò per dieci anni in prigioni sotterranee che non erano nemmeno nelle carceri, ma nelle caserme. Quegli uomini furono chiamati 'i nove ostaggi': perché attraverso di loro gli strateghi della dittatura facevano in modo che l’MLN-T non continuasse ad agire: qualsiasi movimento sbagliato e avrebbero eliminato uno dei leader.
I nove ostaggi furono Mauricio Rosencof (scrittore, ora direttore della sezione Cultura della provincia di Montevideo), Eleuterio Fernández Huidobro (oggi senatore), Raúl Sendic (morto a Parigi nel 1989), Henry Engler (esperto in neuroscienze), Adolfo Wassen (morto di cancro alla colonna vertebrale mesi prima di essere liberato), Jorge Zabalza (oggi allontanatosi dal Movimento), Jorge Manera (anche lui allontanatosi), Julio Marenales e José Mujica.
Fra tutti, si dice che Henry Engler e José Mujica furono quelli che risentirono di più della prigionia. Engler, oggi residente in Svezia, fu candidato al Nobel per la Medicina e fu protagonista di un documentario, El Círculo, che racconta l'evoluzione della sua pazzia durante la reclusione. E Mujica invece, dice che lui arrivò a parlare con rane e formiche. Marenales lo spiega così: “Se passi dodici anni in un quadrato di un metro per un metro, le esperienze sono così limitate che bisogna fare un grande sforzo per capire se le cose le hai pensate, le hai vissute o le hai sognate. Tutto il movimento si compie con la mente, e questo è pericoloso. Tutto, a un certo punto, può trasformarsi in finzione”.
Marenales ha il respiro corto quando parla: è solo una piccola aspirazione, l'inizio di una mancanza d'aria che poi si spegne. Le sue mani sono grandi, ha fatto il falegname, ma il resto del suo corpo è piccolo, magro, perfino giovane. Gli anni di confino devono influire, in qualche modo, nell'aspetto esteriore di quest'uomo: c'è un tempo morto nel viso di Marenales; un velo insormontabile.
L'ultima volta che lo presero, nel 1972, Marenales lanciò, su chi lo stava catturando, una granata che non scoppiò. Ricevette in cambio quattordici colpi di mitra.
- Sono sopravvissuto per miracolo - dice. - Tutti- aggiunge - sono sopravvissuti per miracolo.
Ad alcuni metri di distanza, un ventilatore soffia aria su una bandiera dei Tupamaros. La casa sa di carte vecchie. Tutto qui sembra più vecchio della sua età. Questo posto esiste dal 1986, quando finì la dittatura. E già nel 1989 fu deciso che l’MLN-T avrebbe continuato a funzionare, e avrebbe mantenuto questo locale, ma sarebbe entrato a far parte del sistema politico con un altro nome, il ‘Movimiento de Participación Popular’ (MPP), al quale appartiene Mujica. L'MPP, a sua volta, entrò a far parte del Frente Amplio: la coalizione di partiti di sinistra che da due legislature, prima con Tabaré Vázquez e ora con Mujica, governa l'Uruguay.
In un angolo della sala principale c'è un cestino per l’immondizia con attaccato sopra il volantino di Mujica. Appare tutto pettinato, pulito: presidenziabile.
- Per fare quella foto gli fecero il bagno - scherza dopo Eleuterio Fernández Huidobro.
- Pepe lo abbiamo messo lì noi - dice ora Marenales. - Abbiamo sempre lavorato come un collettivo. Al di là delle caratteristiche personali di ciascun compagno, noi non crediamo che la storia vada avanti sulla base di uomini brillanti.
- Ma perché è stato scelto Mujica e non un altro?
Marenales si sistema la montatura dorata degli occhiali, sulle ossa sottili, si abbassa in avanti, e parla:
- Perché Pepe aveva un vantaggio. Nel Frente Amplio a noi non ci volevano granché. Dicevano che eravamo dei bifolchi. Ma Pepe aveva tre appoggi: quello delle nostre spalle, perché nel Movimiento lo abbiamo sostenuto come abbiamo potuto. Quello della sua storia personale, perché Pepe viene dalla terra e l'ha sempre coltivata, senza sentire mai sopra di lui la mano del padrone, sempre più o meno in modo autonomo. E quello di coloro che stanno in basso. Sono stati loro che lo hanno portato alla presidenza. Ed è per questo che Pepe ha preso un impegno grande con la gente umile. E dobbiamo aiutarlo a mantenere fede a quell'impegno. Perché è quello che sta facendo.
Marenales non ha voluto incarichi nel governo. Ci sono anche quelli che dicono che questo rifiuto è dovuto al fatto che è clinicamente pazzo - un sinonimo adatto alla definizione di 'disadattato' -, ma forse esiste anche un altro motivo: perché ci sia un Mujica che governa il paese, ci deve essere anche un Marenales che gli dice all'orecchio: non dimenticare.
- Non dimenticare quello che siamo stati una volta. Non dimenticare l'obiettivo. Questo gli dico. Però in realtà lo vedo sempre meno.
Fra le rarissime foto di quei tempi, esiste un'immagine che ritrae Marenales di profilo. È il 1968, lo stanno portando in carcere a Punta Carretas, e quello che si osserva è un uomo col naso dritto, i capelli anneriti, la fronte corrucciata e il viso ermetico. L'uomo forte che Marenales è stato e continua a essere. Un uomo che stava programmando, in quello stesso momento, la sua fuga.“Shopping Punta Carretas”: così dice il cartello all'entrata. Il nome è scolpito all'ingresso del centro commerciale, su un'insegna degli inizi del 1900, nello stesso posto dove prima si leggeva “Cárcel de Punta Carretas”. Prima tutto questo era grigio, ma ora ha il colore che l'immaginazione neoliberale riserva per questi casi: il beige. Tutte queste merde sono sempre beige.
A sinistra dell'entrata c'è un Mc Café, a destra un ristorante che dice Johnny Walker, e in fondo c'è il centro commerciale, che è uguale a tutti i centri commerciali della terra, pavimenti lucidi, borse con le cordicelle, e il vapore di una musica che non è nemmeno brutta: è fredda.
Non è facile immaginare in che angolo di questo edificio possa essere stato Mujica; dove avranno ideato la loro fuga, questi tipi? Nel negozio Lacoste? In quello delle calze Sylvana? Adesso c'è un soffitto trasparente e si può vedere il cielo, ma prima? Che dimensioni aveva il cielo prima? Nella sede dell’MLN-T, senza che Julio Marenales lo sapesse, c'era un modellino del carcere: si vedeva, in sezione longitudinale, un carcere di quasi quattrocento celle divise in due bracci di quattro piani ciascuno, separati da un cortile centrale.
Lì, cioè, qui, nel 1970 arrivò Mujica con il corpo cucito di pallottole, dopo aver passato tre mesi all'Ospedale Militare. Quel percorso era cominciato tempo prima, nel bar La Vía, il luogo nel quale si era recato Mujica con altri Tupamaros, per organizzare il furto a una famiglia milionaria che si chiamava Mailhos. Quella notte un poliziotto riconobbe Mujica mentre stava appoggiato al bancone, e chiamò chiedendo rinforzi. Quando arrivarono, Mujica aiutò i compagni a fuggire, ma non poté farlo lui. Un poliziotto gli sparò, era nervoso. “Occhio, che ti può scappare un colpo”, gli disse Mujica. E il colpo gli scappò.
Mujica arrivò all'Ospedale Militare con sei pallottole in corpo. Ma vivo. E tre mesi dopo fu mandato a Punta Carretas: un luogo che, a confronto di ciò che avrebbe visto dopo, somigliava abbastanza a una scuola di studenti adolescenti.
Lì (o qui?, potremmo continuare a dire 'qui'?) i militanti addestravano nuovi compagni (delinquenti comuni che finivano per unirsi al Movimento) e li formavano al lato stoico della rivoluzione: le loro celle erano pulite, i loro corpi atletici, e le loro teste..., insomma, a questo punto è chiaro come lavoravano le teste di questi tipi.
- Io davo lezioni di tattica e insegnavo a fare esplosivi - raccontò Marenales nella sede dell'MLN-T. Il livello di precisione dei disegni era molto alto. Se da una parte bisognava fare una vite e il compagno disegnava un piccolo cerchio, io allora gli dicevo: questo non è una vite, è un chiodo. La vite ha una fessura per il cacciavite. A questo livello di precisione. Era necessario essere dettagliati. Con gli esplosivi fai un errore, ed è l'unica volta che lo fai.
Sempre più detenuti comuni cominciarono a considerare i Tupamaros come un gruppo ammirevole, e alcuni ladri misero a disposizione della causa le loro conoscenze: insegnarono, per esempio, a fare un buco nel muro in nemmeno un minuto, lavorando non sui mattoni, ma sulla malta che li unisce. Grazie a questo, tutte le pareti del carcere, e anche alcuni soffitti, avevano il loro buco e tutte le celle erano segretamente collegate fra di loro. Quest’opera di ingegneria permise la storica fuga del 6 settembre 1971.
- Volevamo organizzare un piano di fuga che non solo volesse dire tornare in libertà, ma che rappresentasse anche un duro colpo per il governo - disse Marenales. - Volevamo umiliarli.
Il 13 agosto 1971, alle sette di mattina, dopo il primo controllo dei prigionieri nelle celle, i detenuti cominciarono a scavare sotto un letto. Mettevano la terra in sacche che erano state preventivamente confezionate con le lenzuola del carcere, e quelle sacche le mettevano sotto le cuccette. Quando quella superficie si riempiva, si apriva il buco che collegava le celle e si passavano le altre sacche sotto il letto della cella accanto. Così, in assoluto silenzio, due piani del carcere si riempirono di macerie. La perquisizione dei piani avveniva ogni ventitré giorni, e quindi i Tupamaros avevano poco più di tre settimane per fare quaranta metri di tunnel.
José López Mercao, che stava nella cella accanto a quella di Mujica, poi avrebbe ricordato questo aneddoto:
-Una volta Pepe prende e fa: “Svelti! Chiudete tutto, che il prigioniero di sopra, che è un rompiscatole, sta battendo e dice che qui sotto c'è rumore, chiudete tutto che ci viene tutto addosso!”. Fu il delirio: riempimmo con le macerie, mettemmo il gesso, una mano di pittura, uno strato per asciugare, e poi rimanemmo quieti ad aspettare; in vita mia non ho mai fatto una cosa così velocemente. E quando abbiamo finito, quel vecchio figlio di puttana ci disse: “No, era per vedere quanto tempo ci sarebbe voluto per chiudere tutto, solo quello...”.
Dopo aver lavorato più di cinquecento ore senza fermarci, e senza rimanere indietro di un giorno, la notte del 6 settembre 1971 centoundici uomini (centosei guerriglieri e cinque detenuti comuni) scapparono in un'azione che loro stessi definirono “l'abuso”.
- L'abuso - avrebbe detto López Mercao - perché quello che facemmo fu un abuso-.
Gli uruguaiani hanno questo senso dell'umorismo.
Mujica ha ricevuto giornalisti con una manata affettuosa e con questa frase: “Piantala di blaterare e vattene a lavorare, che di questo ha bisogno il paese”.
Mujica ha ricevuto giornalisti, in giorni di campagna elettorale, con le scarpe di corda ma senza denti (beh, ha fatto intere conferenze stampa senza denti), giocando con la sua cagna storpia e facendosi tagliare i capelli da uno sconosciuto che era andato a chiedergli lavoro.
Mujica ha ricevuto giornalisti la stessa mattina delle elezioni presidenziali e li ha ricevuti in pigiama, con la barba lunga e con le gengive che rimuginavano quest'unica frase: “Nonostante il rumore, il mondo oggi non cambierà”.
Quella, era la mattina del ventinove novembre 2009. E anche se il mondo non cambiò, quel giorno l'Uruguay cambiò rotta: con il cinquantadue per cento dei voti - vinti su Luis Alberto Lacalle in un ballottaggio - Mujica divenne il presidente più impensato dell'Uruguay e probabilmente della terra. Non solo per la sua austerità, portata all'esasperazione, ma per il suo passato, che non è altro che l'origine di tutto il resto.
Mujica aveva militato nel Movimento di Liberazione Nazionale Tupamaros (MLN-T), una guerriglia nata e rafforzatasi sulla scia della rivoluzione cubana; è stato incarcerato due volte in un carcere che oggi, miracoli della globalizzazione, è un centro commerciale; scappò da quel bagno penale con una delle fughe più spettacolari che annoveri la storia carceraria universale; vide troppi amici morire e fu sul punto di morire troppe volte; rimase dieci anni isolato in un pozzo durante la dittatura militare del 1973, dove sopravvisse alla possibilità della pazzia; e arrivata la democrazia festeggiò quella vita regalata nell'unico modo possibile: arando e militando. Questa volta, nella legalità.
Nel 1995, Mujica diventò il primo Tupamaro ad occupare un posto di deputato nazionale. Poi fu senatore. Poi diventò ministro. E alla fine del 2009 è diventato il primo “ex-guerrigliero” ad arrivare alla presidenza dell'Uruguay e a dare senso compiuto a una lotta ideologica per la quale si è immolata buona parte dell'America Latina.
- Pepe è riuscito ad arrivare fin qui, prima di tutto, perché è sopravvissuto - dirà qualche giorno dopo José López Mercao, compagno di Mujica nel carcere di Punta Carretas. - In secondo luogo, perché il movimento armato si guadagnò una buona reputazione presso la popolazione: rimase sempre l'idea che i Tupamaros erano brave persone. E infine, perché Pepe è sempre stato un tipo molto umano, molto innamorato, molto sveglio e molto austero.
Oggi Mujica si sposta in una Chevrolet Corsa abbastanza vecchia. Non usa la cravatta. Non ha un cellulare. Non ha una carta di credito. Proibisce ai funzionari del governo di usare Facebook o Twitter o qualsiasi altra cosa simile. Ha una moglie, la senatrice Lucia Topolansky, asceta come lui. E non vive nella residenza presidenziale, ma in questa fattoria dalla struttura precaria nel Rincón del Cerro: una zona rurale a venti minuti da Montevideo, dove la campagna è più una fatica che un luogo verde.
Mujica passa qui i suoi giorni dalla metà degli anni '80, quando uscì dal bagno penale con la certezza che sarebbe tornato alla politica e si sarebbe comprato una piccola fattoria, l'una e l'altra cosa insieme. Con lui, Lucia Topolansky, anche lei Tupamara, e terza carica della repubblica dell'Uruguay; Micaela, la sua cagna a tre zampe e due famiglie che, non avendo un posto migliore dove andare a sbattere, andarono a parlare con Mujica e ricevettero in cambio un pezzo di terra nella stessa fattoria (da qui la costruzione grigia ancora a metà; da qui i vestitini da bambino stesi); e due uomini in divisa ora si presentano all'entrata e dicono, cortesemente, quello che sono venuti a dirci: “Chieda un'intervista agli uffici del presidente”.
Da quando ha assunto la carica, Mujica, sino ad allora famoso per la sua disponibilità verso i giornalisti, ha concesso solo tre interviste e tutte allo stesso organo di stampa. La ragione è che i suoi addetti stampa sanno che Mujica parla come vive: senza cortesie e con la casa in costruzione, e ora che è un presidente, se ne vogliono prendere cura. Per questo interpongono filtri infiniti, e per questo, fra le altre cose, ci sono queste guardie, due tipi con il petto robusto, accompagnati da un cane labrador che si getta a pancia all'aria e riceve le mie carezze.
- Questa è la casa del presidente - dice uno.
- E inoltre, il presidente non c'è- dice l'altro.
- Ah - dico io.
Ci guardiamo in silenzio.
Dietro questi due uomini si vede il bucato, vestiti consumati che pendono da una corda, la casa mezza in costruzione, i giochi dei bambini sparsi per i pascoli. Ma quello che non si vede è il resto: l'immenso cumulo di dubbio che si staglia in questo scenario di insolita semplicità.
Perché José Mujica vive qui, questo è chiaro. La domanda è, com'è possibile? La domanda è, perché?
- Io non volevo che Pepe fosse presidente.
Julio Marenales è uno dei leader storici del Movimento di Liberazione Nazionale Tupamaros e Mujica lo considera 'un fratello'. Hanno militato insieme, insieme sono caduti nel bagno penale di Punta Carretas, insieme sono scappati, e insieme, anche se separati, in diversi istituti, hanno sofferto dieci anni rinchiusi nei pozzi delle caserme. La distanza fra Marenales e Mujica è comparsa in questi ultimi tempi: Mujica è andato avanti nella politica, mentre Marenales, anche se appoggia Mujica, è rimasto nell'organizzazione. Oggi rappresenta l'ala radicale ed è diventato una specie di controllore della purezza ideologica del Movimento.
- Pepe non può fare una presidenza con le idee che aveva come Tupamaro. Ha dovuto adattarsi. Si è conformato con il pensiero generale del Fronte Ampio, che è una forza in cui militano lavoratori ma anche imprenditori, e agli imprenditori piace il sistema capitalista. Quindi le idee che portò avanti anni fa il compagno Mujica adesso le tiene conservate, immagino, nel congelatore. Voglio dire: Pepe non ha intenzione di fare la rivoluzione. Il che non esclude che questo sia, e di molto, il miglior governo che abbia mai avuto questo paese.
Marenales sorride: non ha nemmeno lui tanti denti. C'è qualcosa che unisce i Tupamaros e i loro denti. Forse è il passare del tempo, ma forse nemmeno quello, il tempo è diventato un modo gentile di spiegare le cose. Marenales, in ogni caso, è sempre stato chiamato Il Vecchio. Ora ha ottantun anni, ma si trascina quel soprannome da quando ne aveva qualcuno in più di trenta. Allora insieme a Raul Sendic (leader massimo dell'organizzazione, già morto e oggi figura mitica) aveva fondato il Movimento che poi accolse Mujica e buona parte della cupola che oggi governa l'Uruguay.
Una storia molto breve, infantilmente breve, dell'MLN-T potrebbe essere più o meno così: i Tupamaros scesero allo scoperto pubblicamente nel 1966 in appoggio a una rivolta dei contadini della canna da zucchero (i lavoratori dipendenti più poveri dell'Uruguay) e in un contesto di pressione sociale forte: la fine del periodo post-bellico in Europa aveva portato con sé un aumento della produzione industriale nel Primo Mondo, e questo significava che l'America Latina aveva cominciato a riempirsi di prodotti importati e ad assistere alla débacle della propria industria nazionale. Verso il 1968 l'Uruguay smise di essere la “Svizzera dell'America” e si impantanò completamente nella melma latinoamericana: cominciarono i licenziamenti, i problemi dei gruppi corporativi, la militarizzazione degli spazi di lavoro e un indurimento delle maglie dello Stato che faceva intravedere il fantasma di un golpe militare.
In quel contesto sorse l'MLN-T: un'organizzazione armata che, incoraggiata dal trionfo di Fidel Castro a Cuba, credeva che la rivoluzione fosse un obiettivo possibile e vicino, e in pochi di mesi riuscì a creare una sua mistica ideologica. I simpatizzanti dell'MLN-T aumentavano. Questo era dovuto al fatto che i Tupamaros non avevano il grilletto facile e che cominciarono a intraprendere iniziative illegali che molte volte erano a favore delle classi povere. Oltre alle procedure standard (furti di armi, alle banche, svuotamento di finanziarie, sequestri di qualche ambasciatore, etc.) ogni tanto fermavano un camion di merci e le distribuivano fra la gente dei quartieri vicini.
Questa propaganda fece sì che l'organizzazione crescesse in modo esponenziale. Verso il 1971 il Movimento, che aveva cominciato con duecento membri, arrivò a cinquemila membri attivi, con un raggio di influenza di trentamila persone, e questo lo fece diventare il fenomeno di crescita più veloce nella storia di qualsiasi associazione politica. Fu quella crescita - e lo dicono loro stessi - che li rovinò. Con più membri cominciarono a esserci anche più errori. Nel momento in cui arrivò la dittatura militare - che in Uruguay si ebbe fra il 1973 e il 1985, con il colpo di stato di Juan Maria Bordaberry -, il Movimento era debole, con troppi morti sulle spalle, all'interno e fuori, e con molti attivisti in carcere. Il vertice militare approfittò di quella debolezza e scagliò il colpo più forte contro l'organizzazione: individuò i nove capetti dell'MLN-T e li isolò per dieci anni in prigioni sotterranee che non erano nemmeno nelle carceri, ma nelle caserme. Quegli uomini furono chiamati 'i nove ostaggi': perché attraverso di loro gli strateghi della dittatura facevano in modo che l’MLN-T non continuasse ad agire: qualsiasi movimento sbagliato e avrebbero eliminato uno dei leader.
I nove ostaggi furono Mauricio Rosencof (scrittore, ora direttore della sezione Cultura della provincia di Montevideo), Eleuterio Fernández Huidobro (oggi senatore), Raúl Sendic (morto a Parigi nel 1989), Henry Engler (esperto in neuroscienze), Adolfo Wassen (morto di cancro alla colonna vertebrale mesi prima di essere liberato), Jorge Zabalza (oggi allontanatosi dal Movimento), Jorge Manera (anche lui allontanatosi), Julio Marenales e José Mujica.
Fra tutti, si dice che Henry Engler e José Mujica furono quelli che risentirono di più della prigionia. Engler, oggi residente in Svezia, fu candidato al Nobel per la Medicina e fu protagonista di un documentario, El Círculo, che racconta l'evoluzione della sua pazzia durante la reclusione. E Mujica invece, dice che lui arrivò a parlare con rane e formiche. Marenales lo spiega così: “Se passi dodici anni in un quadrato di un metro per un metro, le esperienze sono così limitate che bisogna fare un grande sforzo per capire se le cose le hai pensate, le hai vissute o le hai sognate. Tutto il movimento si compie con la mente, e questo è pericoloso. Tutto, a un certo punto, può trasformarsi in finzione”.
Marenales ha il respiro corto quando parla: è solo una piccola aspirazione, l'inizio di una mancanza d'aria che poi si spegne. Le sue mani sono grandi, ha fatto il falegname, ma il resto del suo corpo è piccolo, magro, perfino giovane. Gli anni di confino devono influire, in qualche modo, nell'aspetto esteriore di quest'uomo: c'è un tempo morto nel viso di Marenales; un velo insormontabile.
L'ultima volta che lo presero, nel 1972, Marenales lanciò, su chi lo stava catturando, una granata che non scoppiò. Ricevette in cambio quattordici colpi di mitra.
- Sono sopravvissuto per miracolo - dice. - Tutti- aggiunge - sono sopravvissuti per miracolo.
Ad alcuni metri di distanza, un ventilatore soffia aria su una bandiera dei Tupamaros. La casa sa di carte vecchie. Tutto qui sembra più vecchio della sua età. Questo posto esiste dal 1986, quando finì la dittatura. E già nel 1989 fu deciso che l’MLN-T avrebbe continuato a funzionare, e avrebbe mantenuto questo locale, ma sarebbe entrato a far parte del sistema politico con un altro nome, il ‘Movimiento de Participación Popular’ (MPP), al quale appartiene Mujica. L'MPP, a sua volta, entrò a far parte del Frente Amplio: la coalizione di partiti di sinistra che da due legislature, prima con Tabaré Vázquez e ora con Mujica, governa l'Uruguay.
In un angolo della sala principale c'è un cestino per l’immondizia con attaccato sopra il volantino di Mujica. Appare tutto pettinato, pulito: presidenziabile.
- Per fare quella foto gli fecero il bagno - scherza dopo Eleuterio Fernández Huidobro.
- Pepe lo abbiamo messo lì noi - dice ora Marenales. - Abbiamo sempre lavorato come un collettivo. Al di là delle caratteristiche personali di ciascun compagno, noi non crediamo che la storia vada avanti sulla base di uomini brillanti.
- Ma perché è stato scelto Mujica e non un altro?
Marenales si sistema la montatura dorata degli occhiali, sulle ossa sottili, si abbassa in avanti, e parla:
- Perché Pepe aveva un vantaggio. Nel Frente Amplio a noi non ci volevano granché. Dicevano che eravamo dei bifolchi. Ma Pepe aveva tre appoggi: quello delle nostre spalle, perché nel Movimiento lo abbiamo sostenuto come abbiamo potuto. Quello della sua storia personale, perché Pepe viene dalla terra e l'ha sempre coltivata, senza sentire mai sopra di lui la mano del padrone, sempre più o meno in modo autonomo. E quello di coloro che stanno in basso. Sono stati loro che lo hanno portato alla presidenza. Ed è per questo che Pepe ha preso un impegno grande con la gente umile. E dobbiamo aiutarlo a mantenere fede a quell'impegno. Perché è quello che sta facendo.
Marenales non ha voluto incarichi nel governo. Ci sono anche quelli che dicono che questo rifiuto è dovuto al fatto che è clinicamente pazzo - un sinonimo adatto alla definizione di 'disadattato' -, ma forse esiste anche un altro motivo: perché ci sia un Mujica che governa il paese, ci deve essere anche un Marenales che gli dice all'orecchio: non dimenticare.
- Non dimenticare quello che siamo stati una volta. Non dimenticare l'obiettivo. Questo gli dico. Però in realtà lo vedo sempre meno.
Fra le rarissime foto di quei tempi, esiste un'immagine che ritrae Marenales di profilo. È il 1968, lo stanno portando in carcere a Punta Carretas, e quello che si osserva è un uomo col naso dritto, i capelli anneriti, la fronte corrucciata e il viso ermetico. L'uomo forte che Marenales è stato e continua a essere. Un uomo che stava programmando, in quello stesso momento, la sua fuga.“Shopping Punta Carretas”: così dice il cartello all'entrata. Il nome è scolpito all'ingresso del centro commerciale, su un'insegna degli inizi del 1900, nello stesso posto dove prima si leggeva “Cárcel de Punta Carretas”. Prima tutto questo era grigio, ma ora ha il colore che l'immaginazione neoliberale riserva per questi casi: il beige. Tutte queste merde sono sempre beige.
A sinistra dell'entrata c'è un Mc Café, a destra un ristorante che dice Johnny Walker, e in fondo c'è il centro commerciale, che è uguale a tutti i centri commerciali della terra, pavimenti lucidi, borse con le cordicelle, e il vapore di una musica che non è nemmeno brutta: è fredda.
Non è facile immaginare in che angolo di questo edificio possa essere stato Mujica; dove avranno ideato la loro fuga, questi tipi? Nel negozio Lacoste? In quello delle calze Sylvana? Adesso c'è un soffitto trasparente e si può vedere il cielo, ma prima? Che dimensioni aveva il cielo prima? Nella sede dell’MLN-T, senza che Julio Marenales lo sapesse, c'era un modellino del carcere: si vedeva, in sezione longitudinale, un carcere di quasi quattrocento celle divise in due bracci di quattro piani ciascuno, separati da un cortile centrale.
Lì, cioè, qui, nel 1970 arrivò Mujica con il corpo cucito di pallottole, dopo aver passato tre mesi all'Ospedale Militare. Quel percorso era cominciato tempo prima, nel bar La Vía, il luogo nel quale si era recato Mujica con altri Tupamaros, per organizzare il furto a una famiglia milionaria che si chiamava Mailhos. Quella notte un poliziotto riconobbe Mujica mentre stava appoggiato al bancone, e chiamò chiedendo rinforzi. Quando arrivarono, Mujica aiutò i compagni a fuggire, ma non poté farlo lui. Un poliziotto gli sparò, era nervoso. “Occhio, che ti può scappare un colpo”, gli disse Mujica. E il colpo gli scappò.
Mujica arrivò all'Ospedale Militare con sei pallottole in corpo. Ma vivo. E tre mesi dopo fu mandato a Punta Carretas: un luogo che, a confronto di ciò che avrebbe visto dopo, somigliava abbastanza a una scuola di studenti adolescenti.
Lì (o qui?, potremmo continuare a dire 'qui'?) i militanti addestravano nuovi compagni (delinquenti comuni che finivano per unirsi al Movimento) e li formavano al lato stoico della rivoluzione: le loro celle erano pulite, i loro corpi atletici, e le loro teste..., insomma, a questo punto è chiaro come lavoravano le teste di questi tipi.
- Io davo lezioni di tattica e insegnavo a fare esplosivi - raccontò Marenales nella sede dell'MLN-T. Il livello di precisione dei disegni era molto alto. Se da una parte bisognava fare una vite e il compagno disegnava un piccolo cerchio, io allora gli dicevo: questo non è una vite, è un chiodo. La vite ha una fessura per il cacciavite. A questo livello di precisione. Era necessario essere dettagliati. Con gli esplosivi fai un errore, ed è l'unica volta che lo fai.
Sempre più detenuti comuni cominciarono a considerare i Tupamaros come un gruppo ammirevole, e alcuni ladri misero a disposizione della causa le loro conoscenze: insegnarono, per esempio, a fare un buco nel muro in nemmeno un minuto, lavorando non sui mattoni, ma sulla malta che li unisce. Grazie a questo, tutte le pareti del carcere, e anche alcuni soffitti, avevano il loro buco e tutte le celle erano segretamente collegate fra di loro. Quest’opera di ingegneria permise la storica fuga del 6 settembre 1971.
- Volevamo organizzare un piano di fuga che non solo volesse dire tornare in libertà, ma che rappresentasse anche un duro colpo per il governo - disse Marenales. - Volevamo umiliarli.
Il 13 agosto 1971, alle sette di mattina, dopo il primo controllo dei prigionieri nelle celle, i detenuti cominciarono a scavare sotto un letto. Mettevano la terra in sacche che erano state preventivamente confezionate con le lenzuola del carcere, e quelle sacche le mettevano sotto le cuccette. Quando quella superficie si riempiva, si apriva il buco che collegava le celle e si passavano le altre sacche sotto il letto della cella accanto. Così, in assoluto silenzio, due piani del carcere si riempirono di macerie. La perquisizione dei piani avveniva ogni ventitré giorni, e quindi i Tupamaros avevano poco più di tre settimane per fare quaranta metri di tunnel.
José López Mercao, che stava nella cella accanto a quella di Mujica, poi avrebbe ricordato questo aneddoto:
-Una volta Pepe prende e fa: “Svelti! Chiudete tutto, che il prigioniero di sopra, che è un rompiscatole, sta battendo e dice che qui sotto c'è rumore, chiudete tutto che ci viene tutto addosso!”. Fu il delirio: riempimmo con le macerie, mettemmo il gesso, una mano di pittura, uno strato per asciugare, e poi rimanemmo quieti ad aspettare; in vita mia non ho mai fatto una cosa così velocemente. E quando abbiamo finito, quel vecchio figlio di puttana ci disse: “No, era per vedere quanto tempo ci sarebbe voluto per chiudere tutto, solo quello...”.
Dopo aver lavorato più di cinquecento ore senza fermarci, e senza rimanere indietro di un giorno, la notte del 6 settembre 1971 centoundici uomini (centosei guerriglieri e cinque detenuti comuni) scapparono in un'azione che loro stessi definirono “l'abuso”.
- L'abuso - avrebbe detto López Mercao - perché quello che facemmo fu un abuso-.
Gli uruguaiani hanno questo senso dell'umorismo.
L'abuso venne in mente a Mujica. C'erano diversi piani per la fuga, ma quello che fu scelto venne fuori da un'idea di Pepe. Lui ebbe l'idea di fare i buchi attraverso tutte le pareti. E poi quell'idea fu come l'invenzione della ruota: c'erano diversi piani di fuga, e quindi serviva per molte più cose.
Eleuterio Fernández Huidobro oltre a essere senatore, è un altro dei Tupamaros che Mujica definisce come un 'fratello'.
- Pepe è sempre stato un pragmatico. C'erano i teorici, quelli che per fare una cosa la complicano, e c'era Pepe, che veniva dall'esperienza di lavorare la terra. Come dice l’aforisma, Pepe pensa come Aristotele, ma parla come Giovanni Popolo.
Huidobro è appoggiato al bancone di un bar. Il suo sguardo schivo, unito alla grassezza e alla stanchezza stampata sul viso morbido, fanno pensare che quest'uomo una volta abbia avuto la sua integrità. Ci sono anni che durano per sempre: forse è questo.
Ci sono anni che non finiscono mai.
Come Mujica, Huidobro è stato a Punta Carretas, è uscito con 'l'abuso', è passato dal carcere di Libertad (che stranamente si trova in un paese che si chiama Libertad), e andò a finire nelle caserme: sotterranei con celle di 1,80 x 0,60 dove i nuovi ostaggi furono costretti poi a passare dieci anni di vita. Questa ultima tappa fu brutalmente diversa dalle precedenti: gli ostaggi erano separati, in gruppi di tre, e ogni terzetto andava in una caserma diversa; i prigionieri erano completamente isolati fra loro; praticamente non ricevevano né cibo né bevande; non gli si permetteva di andare in bagno; men che meno ricevevano lettere, o visite.
Huidobro era nella stessa caserma con Mauricio Rosencof e Mujica. Era quasi impossibile avere contatti fra loro, ma durante gli anni riuscirono a mettersi d'accordo su un punto: non dovevano impazzire. Rosencof cominciò a scrivere mentalmente: erano poemi di versi brevi, a volte di un'unica parola, perché fossero più facili da memorizzare:
Eleuterio Fernández Huidobro oltre a essere senatore, è un altro dei Tupamaros che Mujica definisce come un 'fratello'.
- Pepe è sempre stato un pragmatico. C'erano i teorici, quelli che per fare una cosa la complicano, e c'era Pepe, che veniva dall'esperienza di lavorare la terra. Come dice l’aforisma, Pepe pensa come Aristotele, ma parla come Giovanni Popolo.
Huidobro è appoggiato al bancone di un bar. Il suo sguardo schivo, unito alla grassezza e alla stanchezza stampata sul viso morbido, fanno pensare che quest'uomo una volta abbia avuto la sua integrità. Ci sono anni che durano per sempre: forse è questo.
Ci sono anni che non finiscono mai.
Come Mujica, Huidobro è stato a Punta Carretas, è uscito con 'l'abuso', è passato dal carcere di Libertad (che stranamente si trova in un paese che si chiama Libertad), e andò a finire nelle caserme: sotterranei con celle di 1,80 x 0,60 dove i nuovi ostaggi furono costretti poi a passare dieci anni di vita. Questa ultima tappa fu brutalmente diversa dalle precedenti: gli ostaggi erano separati, in gruppi di tre, e ogni terzetto andava in una caserma diversa; i prigionieri erano completamente isolati fra loro; praticamente non ricevevano né cibo né bevande; non gli si permetteva di andare in bagno; men che meno ricevevano lettere, o visite.
Huidobro era nella stessa caserma con Mauricio Rosencof e Mujica. Era quasi impossibile avere contatti fra loro, ma durante gli anni riuscirono a mettersi d'accordo su un punto: non dovevano impazzire. Rosencof cominciò a scrivere mentalmente: erano poemi di versi brevi, a volte di un'unica parola, perché fossero più facili da memorizzare:
Io / non / sono / pazzo, / dico. / Perché / mi guardi? / Io / non / sono / pazzo, / dico. / Gira / il corvo, / dice. / Guardo / il suo nido.
Rosencof scriveva cose così, e fu lui che riuscì a intrattenere lunghi dialoghi con le sue scarpe e uscendo dal carcere pubblicò un libro bello, indimenticabile, di sue poesie: Conversaciones con la alpargata (Conversazioni con le scarpe di corda).
Huidobro, da parte sua, passò anni interi a immaginare che correva lungo la spiaggia e faceva la pipì dove capitava. E Mujica diventò amico di nove rane e verificò che le formiche, se si ascoltano da vicino, comunicano con grida.
In Mujica, la biografia completa scritta da Miguel Ángel Campodónico, Mujica riassume in questo modo il suo passaggio dalle caserme: “Io di solito non parlo della tortura e di quanto ho sofferto. Mi dà perfino un po' fastidio, perché ho visto che a volte c'è stata una specie di corsa misurata con un 'torturometro'. Persone che si compiacciono nel ripetere 'ah, come sono stato male'. Io dico che io sono stato tanto male per mancanza di velocità, fu per quello che mi presero. Alla fin fine, la vita biologica è piena di trappole così enormi, così tragiche, così dolorose, che quello che successe a me fu una sciocchezza”.
E lo dice: una sciocchezza.
Dal terzo anno di reclusione i nove ostaggi cominciarono a ricevere materiale di lettura. Non erano permesse opere di scienze sociali o romanzi, ma era lo stesso: tutte le parole a quel punto erano finzione. Mujica si dedicò alla matematica e alla rivista Chacra.
- Poi Pepe mi aggiornava sulle sue letture e mi parlava della Pampa umida - dice Huidobro. Ma quando dice 'parlare' in realtà si riferisce a un'altra cosa: col passare del tempo, Rosencof, Huidobro e Mujica idearono un sistema di dialogo attraverso colpi sulle pareti. Seguendo questo modello, le lettere dell'alfabeto erano divise in gruppi di cinque. Il primo colpo definiva il gruppo, e il secondo colpo dava l'ordine della lettera all'interno del gruppo.
- Quando ci prendevamo la mano, parlavamo come matti. È come una seconda lingua che poi ti resta per sempre.
- Di cosa parlavate con Mujica?
- Lui di solito mi parlava di agricoltura, di come migliorare la produttività dei campi. E poi, quando hai molta fame, fame che ti porti dietro da anni, non c'è comunicazione che non inizi o finisca con il cibo. Con Pepe parlavamo di patate, maiali, vacche, ma in realtà stavamo parlando di costolette.
Per mancanza di liquidi e di cibo, Mujica si ammalò gravemente alla vescica e ai reni. Non si è capito cosa avesse, ma si sa che doveva andare spesso in bagno, che non lo lasciavano uscire dalla cella e che adesso ha un solo rene. Per guarire doveva bere due litri di acqua al giorno. Ma nei periodi buoni i militari gliene davano appena una tazza. Con quella tazza Mujica finì per fare l'unica cosa possibile: riutilizzare quello che produceva. Beveva la sua pipì. Tutti lì bevevano la propria pipì.
Anni dopo, quando dalle caserme avvertirono che la situazione di Mujica era clinicamente grave, i carcerieri cominciarono a idratarlo con un cucchiaio di thè e permisero che sua madre, Lucy Cordano, gli portasse un vaso da notte.
Era un vaso da notte rosa.
Da quel momento, Mujica si portava quel vaso da notte sotto il braccio ogni volta che lo trasferivano di caserma - e succedeva ogni sei mesi - e lo fece anche nel 1983, quando le pressioni degli organismi internazionali riuscirono a far trasferire i nove ostaggi al carcere di Libertad.
- Quando dopo dieci anni ci fecero tornare a Libertad, una causa per la quale stavamo lottando, per noi fu un paradiso - dice Huidobro. Noi eravamo felici, felici in un modo incredibile, non te lo puoi nemmeno immaginare, perché avevamo mezzo pacchetto di sigarette e un luogo dove andare a fare la pipì.
A Libertad c'era mezz'ora d'aria al giorno, i detenuti discutevano di politica e si giocavano perfino partite di calcio. Ma Mujica non migliorava. Nessuno lo tirava fuori dal suo isolamento. Alla fine lo vide un medico e si prese la decisione: Mujica avrebbe lavorato nel vivaio del carcere.
Qualcosa ritornò a Mujica, quando Mujica tornò alla terra.
- Ho detto che sono quasi panteista - disse nella biografia di Miguel Ángel Campodónico. E quando dico che parlo con le piante, naturalmente non sto dicendo che veramente parlo con loro, ma che cerco di interpretarle. C'è un’infinità di linguaggi, di segnali, che naturalmente a partire dal momento in cui li ho capiti mi suscitano ammirazione. Sono tutte forme organizzate dalla natura per mantenere la lotta per la vita. Una zolla dev'essere come un intero laboratorio, così complicato che l'uomo non è nemmeno capace di riprodurlo. Si può essere religiosi perché si è analfabeti. Ma si può anche avere un atteggiamento religioso quando si inizia a sapere e si capisce che non si sa nulla.
Il 14 marzo del 1985, quando cadde la dittatura e Julio María Sanguinetti assunse la presidenza dell'Uruguay, ai nove ostaggi fu concessa l’amnistia e furono rilasciati.
Mujica uscì dal carcere con il vaso da notte in mano, pieno di calendule fiorite.
Huidobro, da parte sua, passò anni interi a immaginare che correva lungo la spiaggia e faceva la pipì dove capitava. E Mujica diventò amico di nove rane e verificò che le formiche, se si ascoltano da vicino, comunicano con grida.
In Mujica, la biografia completa scritta da Miguel Ángel Campodónico, Mujica riassume in questo modo il suo passaggio dalle caserme: “Io di solito non parlo della tortura e di quanto ho sofferto. Mi dà perfino un po' fastidio, perché ho visto che a volte c'è stata una specie di corsa misurata con un 'torturometro'. Persone che si compiacciono nel ripetere 'ah, come sono stato male'. Io dico che io sono stato tanto male per mancanza di velocità, fu per quello che mi presero. Alla fin fine, la vita biologica è piena di trappole così enormi, così tragiche, così dolorose, che quello che successe a me fu una sciocchezza”.
E lo dice: una sciocchezza.
Dal terzo anno di reclusione i nove ostaggi cominciarono a ricevere materiale di lettura. Non erano permesse opere di scienze sociali o romanzi, ma era lo stesso: tutte le parole a quel punto erano finzione. Mujica si dedicò alla matematica e alla rivista Chacra.
- Poi Pepe mi aggiornava sulle sue letture e mi parlava della Pampa umida - dice Huidobro. Ma quando dice 'parlare' in realtà si riferisce a un'altra cosa: col passare del tempo, Rosencof, Huidobro e Mujica idearono un sistema di dialogo attraverso colpi sulle pareti. Seguendo questo modello, le lettere dell'alfabeto erano divise in gruppi di cinque. Il primo colpo definiva il gruppo, e il secondo colpo dava l'ordine della lettera all'interno del gruppo.
- Quando ci prendevamo la mano, parlavamo come matti. È come una seconda lingua che poi ti resta per sempre.
- Di cosa parlavate con Mujica?
- Lui di solito mi parlava di agricoltura, di come migliorare la produttività dei campi. E poi, quando hai molta fame, fame che ti porti dietro da anni, non c'è comunicazione che non inizi o finisca con il cibo. Con Pepe parlavamo di patate, maiali, vacche, ma in realtà stavamo parlando di costolette.
Per mancanza di liquidi e di cibo, Mujica si ammalò gravemente alla vescica e ai reni. Non si è capito cosa avesse, ma si sa che doveva andare spesso in bagno, che non lo lasciavano uscire dalla cella e che adesso ha un solo rene. Per guarire doveva bere due litri di acqua al giorno. Ma nei periodi buoni i militari gliene davano appena una tazza. Con quella tazza Mujica finì per fare l'unica cosa possibile: riutilizzare quello che produceva. Beveva la sua pipì. Tutti lì bevevano la propria pipì.
Anni dopo, quando dalle caserme avvertirono che la situazione di Mujica era clinicamente grave, i carcerieri cominciarono a idratarlo con un cucchiaio di thè e permisero che sua madre, Lucy Cordano, gli portasse un vaso da notte.
Era un vaso da notte rosa.
Da quel momento, Mujica si portava quel vaso da notte sotto il braccio ogni volta che lo trasferivano di caserma - e succedeva ogni sei mesi - e lo fece anche nel 1983, quando le pressioni degli organismi internazionali riuscirono a far trasferire i nove ostaggi al carcere di Libertad.
- Quando dopo dieci anni ci fecero tornare a Libertad, una causa per la quale stavamo lottando, per noi fu un paradiso - dice Huidobro. Noi eravamo felici, felici in un modo incredibile, non te lo puoi nemmeno immaginare, perché avevamo mezzo pacchetto di sigarette e un luogo dove andare a fare la pipì.
A Libertad c'era mezz'ora d'aria al giorno, i detenuti discutevano di politica e si giocavano perfino partite di calcio. Ma Mujica non migliorava. Nessuno lo tirava fuori dal suo isolamento. Alla fine lo vide un medico e si prese la decisione: Mujica avrebbe lavorato nel vivaio del carcere.
Qualcosa ritornò a Mujica, quando Mujica tornò alla terra.
- Ho detto che sono quasi panteista - disse nella biografia di Miguel Ángel Campodónico. E quando dico che parlo con le piante, naturalmente non sto dicendo che veramente parlo con loro, ma che cerco di interpretarle. C'è un’infinità di linguaggi, di segnali, che naturalmente a partire dal momento in cui li ho capiti mi suscitano ammirazione. Sono tutte forme organizzate dalla natura per mantenere la lotta per la vita. Una zolla dev'essere come un intero laboratorio, così complicato che l'uomo non è nemmeno capace di riprodurlo. Si può essere religiosi perché si è analfabeti. Ma si può anche avere un atteggiamento religioso quando si inizia a sapere e si capisce che non si sa nulla.
Il 14 marzo del 1985, quando cadde la dittatura e Julio María Sanguinetti assunse la presidenza dell'Uruguay, ai nove ostaggi fu concessa l’amnistia e furono rilasciati.
Mujica uscì dal carcere con il vaso da notte in mano, pieno di calendule fiorite.
Un uomo arriva in Vespa al Parlamento. Ha i capelli arruffati dal vento, un paio di jeans, un giubbotto nero, i baffi. Lascia la moto parcheggiata all'entrata.
- Quanto tempo pensa di stare? - Gli chiede la guardia.
- Se non mi buttano fuori prima, cinque anni - risponde l'uomo.
Questo, secondo una leggenda che nessuno nega con molta enfasi, è quello che sarebbe successo il primo giorno in cui José Mujica, primo Tupamaro deputato, arrivò al Parlamento. Era il 1995 e quello stesso giorno, trasmesso sulla televisione nazionale, prestava giuramento come presidente per la seconda volta Julio María Sanguinetti, e quindi la sala era piena di ambasciatori, mandatari, esponenti della gerarchia della chiesa e autorità varie.
Ma Mujica entrò così: capelli arruffati, jeans, senza cravatta.
- Io ho pensato: crederanno che è una manovra pubblicitaria - disse Huidobro al bar, giorni prima. - Loro non lo sanno, mentre io sì, che il giubbotto è nuovo. Che i pantaloni sono nuovi. Che si era pettinato. E che non si vestirà mai più così. Come diceva Sancho a don Chisciotte: “Ciascuno è come Dio lo ha fatto, e a volte anche peggio”. Anche peggio.
L'arrivo di Mujica al Congresso significò un cambiamento per la politica uruguaiana. In primo luogo, perché furono cambiati gli usi e i costumi della Camera; per esempio, arrivò il mate nelle sedute legislative. In secondo luogo perché quella cosa formale in realtà portava con sè un cambiamento di fondo: Mujica ha usato il suo seggio in Parlamento per girare il paese e inserire nei suoi discorsi ciò che già, da piccolo, caratterizzava la sua vita: l’agricoltura. Mujica, figlio di una floricultrice e di un padre allevatore che finì rovinato e morì giovane, fece il suo primo discorso nel Palazzo Parlamentare sul tema del pascolo.
E dal pascolo passò alla vacca che mangiava il pascolo. E dalla vacca passò al paese allevatore.
- Coloro che credevano che Pepe fosse un problema di comunicazione passeggero, un prodotto effimero, si sbagliarono - disse Huidobro. Pepe fu uno dei migliori deputati di quella legislatura, un oratore brillante. È stato lui a dare voce a tutto l'interno dell'Uruguay e ha avuto una specie di fidanzamento appassionato con il pubblico.
L'arrivo al Parlamento è stato solo l'inizio. Cinque anni dopo Mujica è stato eletto senatore. E nel 2004 la sua figura si è rivelata chiave perché la sinistra, comandata dal moderato Tabaré Vázquez, arrivasse per la prima volta al potere. Mujica partecipò al governo di Vázquez come ministro dell'Allevamento, Agricoltura e Pesca, e ne uscì benissimo. Tanto, che nel 2009 stravinse le primarie all’interno del Frente Amplio per presentarsi alla candidatura presidenziale, e affrontò le elezioni nazionali con proposte impensabili per qualsiasi candidato del ventunesimo secolo.
Mujica propose di discutere della proprietà privata delle grandi proprietà terriere, togliere il segreto bancario, “importare” contadini dal Perù, dalla Bolivia, dal Paraguay e dall'Ecuador perché lavorassero nelle zone rurali “perché i montevideani poveri di qui non lo fanno” e risolvere il problema della droga “prendendo i drogati per le chiappe e sbattendoli in una fattoria”. Insomma, propose di prendere il toro per le corna. Il che comportava dei dubbi dal punto di vista operativo - come si poteva fare? - e dilemmi di tipo congiunturale. Mano a mano che Mujica iniziò a parlare, si capì che il maggior oppositore non si trovava nell'altro partito, e nemmeno in un altro corpo: il maggior pericolo di Mujica era, in parte, il suo più grande capitale politico: la sua inusitata franchezza. L'onestà di Mujica arrivò al suo culmine in ottobre, a pochi giorni dal ballottaggio che avrebbe assegnato la presidenza a lui o al liberale Luis Alberto Lacalle, proprio quando uscì il libro Pepe Coloquios: una lunga intervista nella quale Mujica, solo per dare qualche esempio, dice che l'Argentina “non è un paese di quarta categoria, non è una repubblica delle banane”, ma ha delle “reazioni da isterico, da pazzo, da paranoico”; che “in Argentina bisogna andare a parlare con i delinquenti peronisti, che sono i re”; che quelli di Buenos Aires hanno la mania di venire a fare il bagno qui, e a loro piace, perché è un piccolo paese simile al loro, ma più dolce, più decente” e che “i radicali sono dei tipi molto bravi, ma sono degli stupidi”.
Cioè: Mujica non ha detto niente che nessuno non pensi già. Ma il mondo della politica impone le sue regole di cortesia ed è stato così che Mujica ha ridimensionato la maggior parte delle sue dichiarazioni, immediatamente ha chiesto scusa, ha diminuito drasticamente i suoi incontri con la stampa, un provvedimento ancora in vigore, ed è riuscito a vincere il ballottaggio con il 52,53% dei voti.
“Questo mondo è pura facciata; e questo non si può dire, e quello nemmeno... La libertà è ipotecata! Uno dei vantaggi che suppone il fatto di essere vecchi è poter dire quello che si pensa. Ma sembra che questo significhi creare un casino della madonna.” Questo ha detto Mujica qualche giorno prima della prima tornata elettorale, in un'intervista alla rivista messicana Gatopardo, quando si stava già parlando del disastro di Pepe Coloquios.
Quindi saranno questi i vantaggi di essere vecchi. Il prossimo 20 maggio, Mujica compirà settantasei anni.
- Quanto tempo pensa di stare? - Gli chiede la guardia.
- Se non mi buttano fuori prima, cinque anni - risponde l'uomo.
Questo, secondo una leggenda che nessuno nega con molta enfasi, è quello che sarebbe successo il primo giorno in cui José Mujica, primo Tupamaro deputato, arrivò al Parlamento. Era il 1995 e quello stesso giorno, trasmesso sulla televisione nazionale, prestava giuramento come presidente per la seconda volta Julio María Sanguinetti, e quindi la sala era piena di ambasciatori, mandatari, esponenti della gerarchia della chiesa e autorità varie.
Ma Mujica entrò così: capelli arruffati, jeans, senza cravatta.
- Io ho pensato: crederanno che è una manovra pubblicitaria - disse Huidobro al bar, giorni prima. - Loro non lo sanno, mentre io sì, che il giubbotto è nuovo. Che i pantaloni sono nuovi. Che si era pettinato. E che non si vestirà mai più così. Come diceva Sancho a don Chisciotte: “Ciascuno è come Dio lo ha fatto, e a volte anche peggio”. Anche peggio.
L'arrivo di Mujica al Congresso significò un cambiamento per la politica uruguaiana. In primo luogo, perché furono cambiati gli usi e i costumi della Camera; per esempio, arrivò il mate nelle sedute legislative. In secondo luogo perché quella cosa formale in realtà portava con sè un cambiamento di fondo: Mujica ha usato il suo seggio in Parlamento per girare il paese e inserire nei suoi discorsi ciò che già, da piccolo, caratterizzava la sua vita: l’agricoltura. Mujica, figlio di una floricultrice e di un padre allevatore che finì rovinato e morì giovane, fece il suo primo discorso nel Palazzo Parlamentare sul tema del pascolo.
E dal pascolo passò alla vacca che mangiava il pascolo. E dalla vacca passò al paese allevatore.
- Coloro che credevano che Pepe fosse un problema di comunicazione passeggero, un prodotto effimero, si sbagliarono - disse Huidobro. Pepe fu uno dei migliori deputati di quella legislatura, un oratore brillante. È stato lui a dare voce a tutto l'interno dell'Uruguay e ha avuto una specie di fidanzamento appassionato con il pubblico.
L'arrivo al Parlamento è stato solo l'inizio. Cinque anni dopo Mujica è stato eletto senatore. E nel 2004 la sua figura si è rivelata chiave perché la sinistra, comandata dal moderato Tabaré Vázquez, arrivasse per la prima volta al potere. Mujica partecipò al governo di Vázquez come ministro dell'Allevamento, Agricoltura e Pesca, e ne uscì benissimo. Tanto, che nel 2009 stravinse le primarie all’interno del Frente Amplio per presentarsi alla candidatura presidenziale, e affrontò le elezioni nazionali con proposte impensabili per qualsiasi candidato del ventunesimo secolo.
Mujica propose di discutere della proprietà privata delle grandi proprietà terriere, togliere il segreto bancario, “importare” contadini dal Perù, dalla Bolivia, dal Paraguay e dall'Ecuador perché lavorassero nelle zone rurali “perché i montevideani poveri di qui non lo fanno” e risolvere il problema della droga “prendendo i drogati per le chiappe e sbattendoli in una fattoria”. Insomma, propose di prendere il toro per le corna. Il che comportava dei dubbi dal punto di vista operativo - come si poteva fare? - e dilemmi di tipo congiunturale. Mano a mano che Mujica iniziò a parlare, si capì che il maggior oppositore non si trovava nell'altro partito, e nemmeno in un altro corpo: il maggior pericolo di Mujica era, in parte, il suo più grande capitale politico: la sua inusitata franchezza. L'onestà di Mujica arrivò al suo culmine in ottobre, a pochi giorni dal ballottaggio che avrebbe assegnato la presidenza a lui o al liberale Luis Alberto Lacalle, proprio quando uscì il libro Pepe Coloquios: una lunga intervista nella quale Mujica, solo per dare qualche esempio, dice che l'Argentina “non è un paese di quarta categoria, non è una repubblica delle banane”, ma ha delle “reazioni da isterico, da pazzo, da paranoico”; che “in Argentina bisogna andare a parlare con i delinquenti peronisti, che sono i re”; che quelli di Buenos Aires hanno la mania di venire a fare il bagno qui, e a loro piace, perché è un piccolo paese simile al loro, ma più dolce, più decente” e che “i radicali sono dei tipi molto bravi, ma sono degli stupidi”.
Cioè: Mujica non ha detto niente che nessuno non pensi già. Ma il mondo della politica impone le sue regole di cortesia ed è stato così che Mujica ha ridimensionato la maggior parte delle sue dichiarazioni, immediatamente ha chiesto scusa, ha diminuito drasticamente i suoi incontri con la stampa, un provvedimento ancora in vigore, ed è riuscito a vincere il ballottaggio con il 52,53% dei voti.
“Questo mondo è pura facciata; e questo non si può dire, e quello nemmeno... La libertà è ipotecata! Uno dei vantaggi che suppone il fatto di essere vecchi è poter dire quello che si pensa. Ma sembra che questo significhi creare un casino della madonna.” Questo ha detto Mujica qualche giorno prima della prima tornata elettorale, in un'intervista alla rivista messicana Gatopardo, quando si stava già parlando del disastro di Pepe Coloquios.
Quindi saranno questi i vantaggi di essere vecchi. Il prossimo 20 maggio, Mujica compirà settantasei anni.
-Come va, Rosencof, sono a Montevideo. Si ricorda che eravamo rimasti che ci saremmo visti?
-Ragazza mia...
-...
-Sai che sono in ospedale. Mi si è guastato il pacemaker, non so che imbroglio di fili hanno combinato questi...
-...
-...
-Allora è ricoverato?
-Sì, cara, questo... siamo nell'era dell'ortopedia. Mi sto disintegrando.
-Ragazza mia...
-...
-Sai che sono in ospedale. Mi si è guastato il pacemaker, non so che imbroglio di fili hanno combinato questi...
-...
-...
-Allora è ricoverato?
-Sì, cara, questo... siamo nell'era dell'ortopedia. Mi sto disintegrando.
Zoppica. Camminando per il corridoio del Palazzo del Parlamento, Lucia Topolansky, sessantasei anni, la senatrice più votata del Parlamento, terza nella linea di successione alla Presidenza, Tupamara, compagna (lei non dice 'consorte', non dice 'moglie', dice 'compagna') di José Mujica, viene avanti con una lieve zoppia ai fianchi.
Il Parlamento è deserto; è febbraio. I passi risuonano in un modo diverso.
- Vieni - dice Topolansky. La seguo. Il suo ufficio è piccolo: nove metri quadrati dove ci sono alcune cartelline, una finestra, uno scrittoio. Sul tavolo di lavoro ci sono carte, una scatola con del thè e lingue di gatto, e una piccola tartarughina di legno verde che muove la testa come a dire 'sì'. Topolansky, con i capelli corti, bianchi, taglio discreto, accarezza dolcemente la tartaruga.
- Dimmi - dice. E io le racconto. Le parlo della rivista. Delle nostre buone intenzioni. Topolansky ascolta con un sorriso unito a qualcos'altro: a una cortese messa in scena della distanza. Tutti dicono che questa donna è dura. In tempi di militanza clandestina la soprannominavano 'il tronco' per quel corpo così massiccio, e probabilmente non solo il corpo era così duro.
Fra il 1970 e il 1985 Topolansky rimase in carcere quasi tutto il tempo. Crede che quella reclusione fu necessaria.
- Il popolo apprezzò molto che i dirigenti dell'MLN non scappassero in esilio, che rimanessero in Uruguay e condividessero la sorte del loro popolo. Tutti i nostri dirigenti furono incarcerati e questo la gente lo prese con favore. Questi fatti ci diedero un certo prestigio. Può sembrare molto soggettivo, ma queste sono le ragioni dell'anima che restano incise nella memoria della gente -.
Topolansky è figlia di una famiglia di classe medio-alta del quartiere Pocitos e ha studiato al Sacre Coeur, una scuola di monache che era diventata famosa, tra le altre cose, per la sua altera calligrafia conosciuta come 'la grafia del Sacre Coeur'. Questo però non spiega perché dica 'sogetivo'. Nè perché più avanti dirà 'prodoto' o 'adatarsi' . C'è chi dice che potrebbe trattarsi di una posa, ma questa ipotesi cancella - o mette in secondo piano - la possibilità della colpa.
Quello che è certo è che Topolansky, pantaloni color crema, camicia bianca molto leggera, dice 'sogetivo' e poi, al contrario di qualsiasi sindacalista argentino, si adatta a vivere come parla. E questo da molto tempo.
E questo, forse, dovrebbe essere abbastanza.
Topolansky si arruolò nell'MLN-T a vent'anni, e fin dall'inizio diede prova di avere carattere. Era il 1969 e a quell'epoca lavorava da Monty: una finanziaria che, aveva scoperto la Topolansky, teneva la contabilità in nero praticamente di tutto il gabinetto dei ministri e dei capoccia della oligarchia uruguaiana. Quando seppe la verità, Topolansky si chiese fino a che punto era complice di quella situazione e che cosa doveva fare: se andarsene o denunciarli.
Scelse entrambe le cose. Si arruolò nell'MLN-T con la sua informazione privilegiata e insieme al Movimento riuscì a fare in modo che le fotocopie dei libri contabili finissero davanti alla porta di casa di un giudice e scatenassero uno scandalo politico che si trascinò dietro il ministro del Tesoro. Inoltre, ovviamente, si licenziò.
- Quando sei una ragazzina pensi le cose con un'altra testa. Adesso, con l'età che ho ora, rifletterei di più su tutta la questione. Ma appartengo a quella generazione sulla quale la rivoluzione cubana ha avuto un forte impatto, e le cose bisogna vederle in questo contesto. Eravamo convinti che potevamo fare la rivoluzione. Convinti. E quanto tu sei motivato, ovviamente il rischio si vede in un altro modo. -
A quei tempi, in alcune delle tante riunioni clandestine, Topolansky (dicono che fosse bella) conobbe José Mujica. Stettero insieme alcuni mesi, ma poi entrambi finirono in carcere: lei a Punta Rieles (da cui scappò, anche se poi la ripresero) e lui a Libertad e poi nelle caserme. Al di là di alcune lettere nei primi tempi, il resto del fidanzamento fu segnato da un lungo, interminabile silenzio.
Sopravvissero anche a quello.
Quando parla della sua compagna, nel libro di Campodónico, Mujica lo fa così: “Visto che entrambi eravamo soli, alla fine ci siamo messi insieme. Nella formazione della coppia c'è stato un elemento di bisogno, fu una specie di rifugio reciproco. Ci ritrovammo in un'epoca abbastanza particolare, del tutto diversa da quella che ci eravamo lasciati indietro. Credo che qualche volta glielo dissi in una lettera: quando uno si avvicina ai cinquant'anni pensa che una buona compagna deve essere una buona cuoca. L'amore quindi comincia ad avere molto di amicizia, di cose che rendono la convivenza più facile. E credo che tutto questo è quello che ci ha fatto restare insieme, andiamo d'accordo che è una meraviglia”.
Un bisogno, un rifugio: l'amore per loro era questo.
- In quegli anni, in cui si correva da una parte e dall'altra, tutto era subito. - dice Lucia Topolonsky - Era molto difficile il dopo. Tutto era oggi, subito, perché domani non so se ci sarò, e tutti i rapporti umani venivano permeati da quell'urgenza.
- Ma non c'era il colpo di fulmine?
Qualcosa si ammorbidisce, si schiarisce, nel volto della Topolonsky.
- Certo che esiste l'affinità, l'amore, il colpo di fulmine, la chimica o dagli il nome che vuoi.
- Quindi, poteva esistere, fra militanti, un pensiero tipo “che begli occhi che ha”.
- Certo. Quella è l'unica cosa che ti tiene su. Ti attacchi a quelle cose. Il rapporto con Pepe ebbe tre fasi: quella degli occhi belli, poi una lunga fase di separazione in cui il ricordo della prima ti serve come l'ossigeno, e poi una tappa che è questa, in cui siamo riusciti a reincontrarci e a ricostruire tutto.
Nel 2005 Topolansky e Mujica si sono sposati nella cucina della sua fattoria. I testimoni sono stati i vicini: alcuni che vivono nello stesso terreno, e altri che hanno un bar sgangherato all'angolo, e l'evento è durato poco più di un'ora. Quella stessa sera, l'8 ottobre, Pepe fu a un evento dell'MPP e fece vedere i documenti del matrimonio.
- Sì. Un giorno a Pepe gli è venuto in mente che ci potevamo sposare e ci siamo sposati.
- Ma l'idea ti era piaciuta?
- Eh... mah... in realtà di fatto non mi ha cambiato niente, no? Io sono sempre stata mezza anarchica da piccola, vedevo come le mie zie e le mie cugine si complicavano la vita per sposarsi, e così ho sempre seguito le scelte che mi permettevano di mantenermi mezza libera. Senza alcun legame. E sì, non ho avuto legami di alcun tipo.
Silenzio.
- Non so cosa sarebbe successo se avessi avuto un figlio a quell'epoca. Ma non lo abbiamo avuto.
Né in quel periodo né in nessun altro. Mujica e Topolansky non hanno avuto figli; e a loro dispiace.
Il Parlamento è deserto; è febbraio. I passi risuonano in un modo diverso.
- Vieni - dice Topolansky. La seguo. Il suo ufficio è piccolo: nove metri quadrati dove ci sono alcune cartelline, una finestra, uno scrittoio. Sul tavolo di lavoro ci sono carte, una scatola con del thè e lingue di gatto, e una piccola tartarughina di legno verde che muove la testa come a dire 'sì'. Topolansky, con i capelli corti, bianchi, taglio discreto, accarezza dolcemente la tartaruga.
- Dimmi - dice. E io le racconto. Le parlo della rivista. Delle nostre buone intenzioni. Topolansky ascolta con un sorriso unito a qualcos'altro: a una cortese messa in scena della distanza. Tutti dicono che questa donna è dura. In tempi di militanza clandestina la soprannominavano 'il tronco' per quel corpo così massiccio, e probabilmente non solo il corpo era così duro.
Fra il 1970 e il 1985 Topolansky rimase in carcere quasi tutto il tempo. Crede che quella reclusione fu necessaria.
- Il popolo apprezzò molto che i dirigenti dell'MLN non scappassero in esilio, che rimanessero in Uruguay e condividessero la sorte del loro popolo. Tutti i nostri dirigenti furono incarcerati e questo la gente lo prese con favore. Questi fatti ci diedero un certo prestigio. Può sembrare molto soggettivo, ma queste sono le ragioni dell'anima che restano incise nella memoria della gente -.
Topolansky è figlia di una famiglia di classe medio-alta del quartiere Pocitos e ha studiato al Sacre Coeur, una scuola di monache che era diventata famosa, tra le altre cose, per la sua altera calligrafia conosciuta come 'la grafia del Sacre Coeur'. Questo però non spiega perché dica 'sogetivo'. Nè perché più avanti dirà 'prodoto' o 'adatarsi' . C'è chi dice che potrebbe trattarsi di una posa, ma questa ipotesi cancella - o mette in secondo piano - la possibilità della colpa.
Quello che è certo è che Topolansky, pantaloni color crema, camicia bianca molto leggera, dice 'sogetivo' e poi, al contrario di qualsiasi sindacalista argentino, si adatta a vivere come parla. E questo da molto tempo.
E questo, forse, dovrebbe essere abbastanza.
Topolansky si arruolò nell'MLN-T a vent'anni, e fin dall'inizio diede prova di avere carattere. Era il 1969 e a quell'epoca lavorava da Monty: una finanziaria che, aveva scoperto la Topolansky, teneva la contabilità in nero praticamente di tutto il gabinetto dei ministri e dei capoccia della oligarchia uruguaiana. Quando seppe la verità, Topolansky si chiese fino a che punto era complice di quella situazione e che cosa doveva fare: se andarsene o denunciarli.
Scelse entrambe le cose. Si arruolò nell'MLN-T con la sua informazione privilegiata e insieme al Movimento riuscì a fare in modo che le fotocopie dei libri contabili finissero davanti alla porta di casa di un giudice e scatenassero uno scandalo politico che si trascinò dietro il ministro del Tesoro. Inoltre, ovviamente, si licenziò.
- Quando sei una ragazzina pensi le cose con un'altra testa. Adesso, con l'età che ho ora, rifletterei di più su tutta la questione. Ma appartengo a quella generazione sulla quale la rivoluzione cubana ha avuto un forte impatto, e le cose bisogna vederle in questo contesto. Eravamo convinti che potevamo fare la rivoluzione. Convinti. E quanto tu sei motivato, ovviamente il rischio si vede in un altro modo. -
A quei tempi, in alcune delle tante riunioni clandestine, Topolansky (dicono che fosse bella) conobbe José Mujica. Stettero insieme alcuni mesi, ma poi entrambi finirono in carcere: lei a Punta Rieles (da cui scappò, anche se poi la ripresero) e lui a Libertad e poi nelle caserme. Al di là di alcune lettere nei primi tempi, il resto del fidanzamento fu segnato da un lungo, interminabile silenzio.
Sopravvissero anche a quello.
Quando parla della sua compagna, nel libro di Campodónico, Mujica lo fa così: “Visto che entrambi eravamo soli, alla fine ci siamo messi insieme. Nella formazione della coppia c'è stato un elemento di bisogno, fu una specie di rifugio reciproco. Ci ritrovammo in un'epoca abbastanza particolare, del tutto diversa da quella che ci eravamo lasciati indietro. Credo che qualche volta glielo dissi in una lettera: quando uno si avvicina ai cinquant'anni pensa che una buona compagna deve essere una buona cuoca. L'amore quindi comincia ad avere molto di amicizia, di cose che rendono la convivenza più facile. E credo che tutto questo è quello che ci ha fatto restare insieme, andiamo d'accordo che è una meraviglia”.
Un bisogno, un rifugio: l'amore per loro era questo.
- In quegli anni, in cui si correva da una parte e dall'altra, tutto era subito. - dice Lucia Topolonsky - Era molto difficile il dopo. Tutto era oggi, subito, perché domani non so se ci sarò, e tutti i rapporti umani venivano permeati da quell'urgenza.
- Ma non c'era il colpo di fulmine?
Qualcosa si ammorbidisce, si schiarisce, nel volto della Topolonsky.
- Certo che esiste l'affinità, l'amore, il colpo di fulmine, la chimica o dagli il nome che vuoi.
- Quindi, poteva esistere, fra militanti, un pensiero tipo “che begli occhi che ha”.
- Certo. Quella è l'unica cosa che ti tiene su. Ti attacchi a quelle cose. Il rapporto con Pepe ebbe tre fasi: quella degli occhi belli, poi una lunga fase di separazione in cui il ricordo della prima ti serve come l'ossigeno, e poi una tappa che è questa, in cui siamo riusciti a reincontrarci e a ricostruire tutto.
Nel 2005 Topolansky e Mujica si sono sposati nella cucina della sua fattoria. I testimoni sono stati i vicini: alcuni che vivono nello stesso terreno, e altri che hanno un bar sgangherato all'angolo, e l'evento è durato poco più di un'ora. Quella stessa sera, l'8 ottobre, Pepe fu a un evento dell'MPP e fece vedere i documenti del matrimonio.
- Sì. Un giorno a Pepe gli è venuto in mente che ci potevamo sposare e ci siamo sposati.
- Ma l'idea ti era piaciuta?
- Eh... mah... in realtà di fatto non mi ha cambiato niente, no? Io sono sempre stata mezza anarchica da piccola, vedevo come le mie zie e le mie cugine si complicavano la vita per sposarsi, e così ho sempre seguito le scelte che mi permettevano di mantenermi mezza libera. Senza alcun legame. E sì, non ho avuto legami di alcun tipo.
Silenzio.
- Non so cosa sarebbe successo se avessi avuto un figlio a quell'epoca. Ma non lo abbiamo avuto.
Né in quel periodo né in nessun altro. Mujica e Topolansky non hanno avuto figli; e a loro dispiace.
Questo è il baretto all'angolo. È qui che ha festeggiato José Mujica quando ha vinto le elezioni. Qui ha riunito il suo gabinetto dei ministri. È qui che ha portato il venezuelano Hugo Chávez quando lo ha voluto omaggiare, nel 2007. E qui, in fase preelettorale, ha organizzato il suo ufficio. Il luogo si chiama “El quincho de Varela”, è a cento metri dalla fattoria di Mujica e consiste in una costruzione rettangolare, con un tetto di paglia e pareti di mattoni, e si trova di fronte a un campo appena arato.
Il luogo appartiene a Sergio 'El Gordo' Varela, soprannominato anche “lo zozzone”: un commerciante all'ingrosso di alimentari che non rilascia dichiarazioni alla stampa e che durante la campagna si occupò di mettersi in contatto con le diverse imprese del Centro de Almaceneros per chiedere loro fondi che sostenessero il nuovo cambiamento al vertice.
Gli interni del baretto di Varela brillano di un pavimento di pietra consumato, un tetto dal quale pendono due bandiere, una del Frente Amplio, un'altra dell'Uruguay, e varie immagini del Che, di Neruda, Allende e Chávez, tavoli fatti con tavole su cui qualcuno ha scritto 'Pepe presidente', una masnada di cani spelacchiati, e giocattoli di bambini gettati a terra.
Una donna grossa e con vestiti scoloriti si avvicina, spaventa i cani, si toglie il sudore dalla fronte e dice:
- Vabbé, poi quando vengono loro sistemiamo un po' meglio.
Il luogo appartiene a Sergio 'El Gordo' Varela, soprannominato anche “lo zozzone”: un commerciante all'ingrosso di alimentari che non rilascia dichiarazioni alla stampa e che durante la campagna si occupò di mettersi in contatto con le diverse imprese del Centro de Almaceneros per chiedere loro fondi che sostenessero il nuovo cambiamento al vertice.
Gli interni del baretto di Varela brillano di un pavimento di pietra consumato, un tetto dal quale pendono due bandiere, una del Frente Amplio, un'altra dell'Uruguay, e varie immagini del Che, di Neruda, Allende e Chávez, tavoli fatti con tavole su cui qualcuno ha scritto 'Pepe presidente', una masnada di cani spelacchiati, e giocattoli di bambini gettati a terra.
Una donna grossa e con vestiti scoloriti si avvicina, spaventa i cani, si toglie il sudore dalla fronte e dice:
- Vabbé, poi quando vengono loro sistemiamo un po' meglio.
I funzionari del governo che appartengono al Movimiento de Participación Popular (MPP) hanno un tetto per i loro stipendi. Il massimo che possono guadagnare sono trentasettemila pesos (millenovecento dollari). Questo significa che la maggioranza, di loro: Huidobro, Mujica, Topolansky e il ministro Eduardo Bonomi, prendono al netto appena il trentacinque per cento del loro stipendio. Il resto va al Fondo Raúl Sendic (che concede microcrediti a progetti per lo più di cooperative, senza interessi, senza firmare carte e senza la richiesta di appartenere al Movimento) e a un fondo di solidarietà con cui si presta soccorso ai militanti dell'MPP che stanno attraversando un momento di emergenza economica.
Nel suo ufficio Eduardo Bonomi, ministro degli Interni, considerato il braccio destro di Mujica nel governo, spiega il limite di stipendio in questo modo:
- È molto facile dare ciò che ci avanza. La questione è dare quello che non ti avanza.
- Ma non ti viene mai la voglia di comprarti un televisore al plasma?
Bonomi si massaggia il labbro inferiore.
- Eh... io vivo in una casa in cooperativa. A questo punto, ora che abbiamo finito di pagare le rate, paghiamo solo le spese comuni. Abbiamo un'auto del '94... Insomma, l'austerità di Pepe è unica, ma che Pepe sia arrivato dove è arrivato, non è un caso.
- Non è cambiato niente in Mujica?
- Operativamente Pepe ha più responsabilità. Ma è la stessa persona. Continua ad alzarsi e a farsi il mate, e ad ascoltare gli uccelli. Ma quasi tutti siamo così. Io mi alzo alle sei, ascolto le notizie...
- Ma non c'è nessuna posa da parte di Mujica?
- No, è così. È così. Lui è così. Macché posa. La vita di Pepe è molto semplice e passa attraverso la terra. Quando uno se ne va in ferie e se ne va in montagna, o al mare, Pepe se ne va a lavorare la terra. E la domenica, quando tutti ci riposiamo, lui si alza presto per lavorare la terra. Se non fa così, non si riposa. La terra è il luogo dove Pepe organizza le sue idee. Ognuno è come è.
Si tocca di nuovo: il labbro inferiore è molle, e si nota.
-Il problema è che Pepe ha una cultura molto più alta e grande di quello che si deduce dal suo modo di parlare.
L'ufficio di Bonomi è ministeriale ma austero: ci sono legni lucidi, mobili robusti, poltrone e tende di panno spesso. Se attraversasse la porta del suo ufficio, Bonomi uscirebbe sul corridoio del ministero e vedrebbe un palazzo pure forte e robusto: solo quattro piani che si raccolgono intorno a un cortile centrale, e in mezzo un obelisco con l'iscrizione: “Omaggio ai caduti”. Sistemate sul monumento, diverse targhe di bronzo ricordano il nome degli agenti di polizia morti in servizio.
Qualcuno deve essersi fatte due risate di fronte a tutto questo.
Bonomi vent'anni fa fu accusato di aver ucciso un poliziotto. Il ventisette gennaio 1972 l'Ispettore Rodolfo Leoncino, capo della sicurezza del carcere di Punta Carretas, aspettava l'autobus quando gli spararono una raffica. L'ordine, dicono le accuse, sarebbe stato eseguito da quattro Tupamaros, fra loro Bonomi. Ma sarebbe stato dato, dal carcere, da tre militanti fra i quali c'era anche José Mujica.
- Quando sono uscito, con l'amnistia, mi trovai di fronte ai giudici, e la prima cosa che mi chiesero fu se un tale giorno a una tale ora avevo fatto una tal cosa, e risposi: “Mi sento politicamente responsabile di tutti i fatti compiuti dall'MLN”. “Ma non le stiamo chiedendo questo, ma se il tal giorno alla tal ora...” “Va bene, io le sto rispondendo che mi sento politicamente responsabile di tutti i fatti compiuti dall'MLN.” Me lo chiesero cinque volte, e cinque volte ho detto la stessa cosa.
Il labbro. Di nuovo si tocca il labbro.
- E ogni volta che mi fanno la domanda, rispondo: mi sento politicamente responsabile di tutti i fatti compiuti dall'MLN.
Bonomi, giacca blu, pantalone grigio, cravatta, porta gli occhiali, ha una barba folta e una voce profonda: tutti questi tipi hanno la voce profonda, ancorata in qualcosa che deve essere il loro aspro passato.
- Quando durante la campagna di Mujica si vociferava che, se avessimo vinto, io sarei stato il ministro degli Interni, qui circolavano mail che mi accusavano di questo e anche di altre cose nuove. Cosicché, quando assunsi il mio incarico, nella Scuola di Polizia mi toccò fare un discorso, e allora dissi che io sapevo che erano circolate delle mail e che non volevo fare lo gnorri, e che capivo che i voti che aveva avuto il Frente Amplio non erano un appoggio a quelle accuse, ma piuttosto premiavano la visione di futuro, di un modello di Nazione con la partecipazione dei lavoratori, dei produttori e degli intellettuali. E ne furono entusiasti.
Bonomi di nuovo si tocca il labbro.
Trenta anni fa un colpo gli prese in pieno la mandibola e ora non può aprirla troppo.
Nel suo ufficio Eduardo Bonomi, ministro degli Interni, considerato il braccio destro di Mujica nel governo, spiega il limite di stipendio in questo modo:
- È molto facile dare ciò che ci avanza. La questione è dare quello che non ti avanza.
- Ma non ti viene mai la voglia di comprarti un televisore al plasma?
Bonomi si massaggia il labbro inferiore.
- Eh... io vivo in una casa in cooperativa. A questo punto, ora che abbiamo finito di pagare le rate, paghiamo solo le spese comuni. Abbiamo un'auto del '94... Insomma, l'austerità di Pepe è unica, ma che Pepe sia arrivato dove è arrivato, non è un caso.
- Non è cambiato niente in Mujica?
- Operativamente Pepe ha più responsabilità. Ma è la stessa persona. Continua ad alzarsi e a farsi il mate, e ad ascoltare gli uccelli. Ma quasi tutti siamo così. Io mi alzo alle sei, ascolto le notizie...
- Ma non c'è nessuna posa da parte di Mujica?
- No, è così. È così. Lui è così. Macché posa. La vita di Pepe è molto semplice e passa attraverso la terra. Quando uno se ne va in ferie e se ne va in montagna, o al mare, Pepe se ne va a lavorare la terra. E la domenica, quando tutti ci riposiamo, lui si alza presto per lavorare la terra. Se non fa così, non si riposa. La terra è il luogo dove Pepe organizza le sue idee. Ognuno è come è.
Si tocca di nuovo: il labbro inferiore è molle, e si nota.
-Il problema è che Pepe ha una cultura molto più alta e grande di quello che si deduce dal suo modo di parlare.
L'ufficio di Bonomi è ministeriale ma austero: ci sono legni lucidi, mobili robusti, poltrone e tende di panno spesso. Se attraversasse la porta del suo ufficio, Bonomi uscirebbe sul corridoio del ministero e vedrebbe un palazzo pure forte e robusto: solo quattro piani che si raccolgono intorno a un cortile centrale, e in mezzo un obelisco con l'iscrizione: “Omaggio ai caduti”. Sistemate sul monumento, diverse targhe di bronzo ricordano il nome degli agenti di polizia morti in servizio.
Qualcuno deve essersi fatte due risate di fronte a tutto questo.
Bonomi vent'anni fa fu accusato di aver ucciso un poliziotto. Il ventisette gennaio 1972 l'Ispettore Rodolfo Leoncino, capo della sicurezza del carcere di Punta Carretas, aspettava l'autobus quando gli spararono una raffica. L'ordine, dicono le accuse, sarebbe stato eseguito da quattro Tupamaros, fra loro Bonomi. Ma sarebbe stato dato, dal carcere, da tre militanti fra i quali c'era anche José Mujica.
- Quando sono uscito, con l'amnistia, mi trovai di fronte ai giudici, e la prima cosa che mi chiesero fu se un tale giorno a una tale ora avevo fatto una tal cosa, e risposi: “Mi sento politicamente responsabile di tutti i fatti compiuti dall'MLN”. “Ma non le stiamo chiedendo questo, ma se il tal giorno alla tal ora...” “Va bene, io le sto rispondendo che mi sento politicamente responsabile di tutti i fatti compiuti dall'MLN.” Me lo chiesero cinque volte, e cinque volte ho detto la stessa cosa.
Il labbro. Di nuovo si tocca il labbro.
- E ogni volta che mi fanno la domanda, rispondo: mi sento politicamente responsabile di tutti i fatti compiuti dall'MLN.
Bonomi, giacca blu, pantalone grigio, cravatta, porta gli occhiali, ha una barba folta e una voce profonda: tutti questi tipi hanno la voce profonda, ancorata in qualcosa che deve essere il loro aspro passato.
- Quando durante la campagna di Mujica si vociferava che, se avessimo vinto, io sarei stato il ministro degli Interni, qui circolavano mail che mi accusavano di questo e anche di altre cose nuove. Cosicché, quando assunsi il mio incarico, nella Scuola di Polizia mi toccò fare un discorso, e allora dissi che io sapevo che erano circolate delle mail e che non volevo fare lo gnorri, e che capivo che i voti che aveva avuto il Frente Amplio non erano un appoggio a quelle accuse, ma piuttosto premiavano la visione di futuro, di un modello di Nazione con la partecipazione dei lavoratori, dei produttori e degli intellettuali. E ne furono entusiasti.
Bonomi di nuovo si tocca il labbro.
Trenta anni fa un colpo gli prese in pieno la mandibola e ora non può aprirla troppo.
Abitudini dell'epoca: quando José López Mercao resistette a un arresto, i militari gli spararono cinque colpi e lo finirono a terra con un sesto colpo che gli attraversò la bocca. Credettero che fosse morto, ma non lo era: i medici della marina lo trovarono e lo portarono all'Ospedale Militare. Lì gli misero in corpo quattro litri di sangue e seppe della presenza di Mujica: l'unico dirigente di cui conosceva il nome.
Era il maggio del 1970.
- Mi ricordo che un giorno venne un medico con la divisa di militare e mi disse: ”Che coglioni che ha Mujica, si afferrava alla barella e diceva: 'non mi lasciate morire, io sono un combattente'. Gli abbiamo dato tredici litri di sangue, che coglioni che ha”.
López Mercao ricorda e sorride: ha un viso possente, olivastro, e un sorriso attraverso il quale fanno capolino due denti leggermente limati nella punta interna: López Mercao sorride - quando sorride - come un bambino. Al suo fianco c'è Isabel Fernández, la sua compagna, e per casa girano le due figlie. Tutti vivono in un appartamento molto dignitoso nel quartiere El Cilindro, un quartiere della classe operaia di Montevideo. Alle pareti ci sono riproduzioni di Modigliani e di Van Gogh. Agli angoli dei grandi portacenere che accolgono le cicche delle sigarette fumate. Nel soggiorno ci sono mobili di bambù e un computer ingombrante. Nelle vetrine ci sono foto recenti fatte con una semplice macchina fotografica analogica: perfino le foto nuove sembrano vecchie.
López Mercao, che a un certo punto è stato indicato anche come futuro capo ufficio stampa di Mujica (e alla fine non lo è stato) racconta tutta la storia che è stata raccontata in queste pagine: parla di Punta Carretas, dell'abuso, del carcere di Libertad, dell'incertezza dei nove ostaggi, dell'arrivo al potere come di un bagno di significato. E lo racconta con un parlare grave e lento: il Nero (lo chiamano 'el Negro') ha la voce indurita dal fumo.
- E tu hai sognato tutto questo? Ti sono arrivati questi ricordi in sogno?
- No - dice. - Io non sogno.
Fuori è buio e piove; i grilli cantano. Una delle figlie si avvicina e cerca della musica nel computer del soggiorno.
- In realtà - dice Isabel, - ogni volta che ritorna su quei fatti, o si riunisce con i compagni a mangiare e a ricordare, io poi noto qualcosa di diverso. Con gli anni la cosa è andata diminuendo, pero io noto che ci resti male, Nero. Noto che resti come intristito. Noto che sogni.
La figlia Evelina mette un pezzo della banda uruguaiana “Cuarteto de nos”. Il pezzo si chiama “El día che Artigas se emborrachó” (“Il giorno che Artigas si ubriacò”), fa riferimento al primo liberatore uruguaiano, mitico eroe nazionale che morì in esilio in Paraguay, e finisce con questa strofa: “Si ubriacò, perché la guerra male gli andò / e si ubriacò, perché qualcuno lo abbandonò / si ubriacò, e la patria lo ringraziò / Whisky per i vinti!”.
In generale le parole sono carine e per giunta qui c'è la birra, così tutti ci siamo messi a ridere. Ma il Nero, attraverso i suoi occhiali colla montatura fine, con il gomito appoggiato al ginocchio, riflette preoccupato.
- La storia uruguaiana è stranissima, gli eroi della nostra storia sono stati tutti sconfitti con onore - dice. - Per la storia essere un trionfatore non è redditizio. Guarda Artigas, Aparicio Saravia, Leandro Gómez, Batlle Ordóñez. In generale, se si vince qui, è un guaio. Ma diventi un idolo. Guarda Pepe, per esempio. Metti l'altro pezzo che piace a me.
Evelina obbedisce e mette l'altro. Fuori la pioggia continua a scendere e dopo qualche minuto il Nero si alza, tira una cicca dalla finestra e se ne va a prendere la macchina per portarmi in albergo.
- Ti voglio raccontare una cosa, perché lui non la racconta mai - sussurra Isabel quando suo marito se ne va. E poi mi dice: - Al Nero era arrivato un risarcimento di ventimila dollari. A quelli che hanno avuto grandi ferite, a quanto pare arriva, e il Nero e la sua mandibola raggiungevano il punteggio sufficiente per entrare in quel club. Pensando al futuro - alle figlie, alle operazioni di chirurgia maxillo-facciale - lui aveva mandato i suoi dati. E da quando li ha mandati ha cominciato a dormire male.
Una sera, Isabel trovò suo marito che diceva: “non posso”.
- Non può accettare quei soldi. Mi ha detto: se li accettassi, se volessi un risarcimento, sarebbe come pentirmi. Io gli ho detto Nero, è il tuo corpo, sono le tue ossa, la mandibola rotta è la tua. Io non mi posso immischiare in questa cosa. Non accettare i soldi se non vuoi accettare i soldi. E lì si sarà sentito liberato, perché si è messo a piangere.
Isabel ha quarantasei anni, occhi celesti, capelli biondi: se ogni età fosse illuminata da una sua luce, si potrebbe dire che questa donna è illuminata dalla luce dei vent'anni. A questo penso, alla nobiltà del suo viso, quando il Nero suona il campanello per avvisare che è sul portone, che aspetta, in macchina.
Il ritorno in albergo avviene in silenzio.
La Avenida 18 de Julio, l'asfalto bagnato, il ritmo calante delle vie del centro: la città sembra un film muto; si sentono solo le gomme della macchina.
- Beh,- il Nero ferma la macchina. - l'ultima cosa che posso dire è che furono gli anni più belli della nostra vita. Non abbiamo mai fatto i nostri interessi. Abbiamo dato tutto. E adesso viviamo in un esercizio di interrogazione periodica con quel ragazzino che siamo stati a vent'anni. Io non voglio fare a sessant'anni cose che mi sarei vergognato di fare a venti. Voglio andarmene dalla vita senza amputare delle parti di me stesso. Forse agli altri compagni succede la stessa cosa.
Questa è l'ultima cosa che dice il Nero prima di salutare con un gesto asciutto, appena una pacca sulla spalla, e di lasciare aperta una domanda: se questa storia doveva essere su José Mujica, o sulla meraviglia collettiva che ha permesso che esista, con assoluta semplicità, José Mujica.
Questo testo, in qualche modo, ne è una lunga risposta.
Era il maggio del 1970.
- Mi ricordo che un giorno venne un medico con la divisa di militare e mi disse: ”Che coglioni che ha Mujica, si afferrava alla barella e diceva: 'non mi lasciate morire, io sono un combattente'. Gli abbiamo dato tredici litri di sangue, che coglioni che ha”.
López Mercao ricorda e sorride: ha un viso possente, olivastro, e un sorriso attraverso il quale fanno capolino due denti leggermente limati nella punta interna: López Mercao sorride - quando sorride - come un bambino. Al suo fianco c'è Isabel Fernández, la sua compagna, e per casa girano le due figlie. Tutti vivono in un appartamento molto dignitoso nel quartiere El Cilindro, un quartiere della classe operaia di Montevideo. Alle pareti ci sono riproduzioni di Modigliani e di Van Gogh. Agli angoli dei grandi portacenere che accolgono le cicche delle sigarette fumate. Nel soggiorno ci sono mobili di bambù e un computer ingombrante. Nelle vetrine ci sono foto recenti fatte con una semplice macchina fotografica analogica: perfino le foto nuove sembrano vecchie.
López Mercao, che a un certo punto è stato indicato anche come futuro capo ufficio stampa di Mujica (e alla fine non lo è stato) racconta tutta la storia che è stata raccontata in queste pagine: parla di Punta Carretas, dell'abuso, del carcere di Libertad, dell'incertezza dei nove ostaggi, dell'arrivo al potere come di un bagno di significato. E lo racconta con un parlare grave e lento: il Nero (lo chiamano 'el Negro') ha la voce indurita dal fumo.
- E tu hai sognato tutto questo? Ti sono arrivati questi ricordi in sogno?
- No - dice. - Io non sogno.
Fuori è buio e piove; i grilli cantano. Una delle figlie si avvicina e cerca della musica nel computer del soggiorno.
- In realtà - dice Isabel, - ogni volta che ritorna su quei fatti, o si riunisce con i compagni a mangiare e a ricordare, io poi noto qualcosa di diverso. Con gli anni la cosa è andata diminuendo, pero io noto che ci resti male, Nero. Noto che resti come intristito. Noto che sogni.
La figlia Evelina mette un pezzo della banda uruguaiana “Cuarteto de nos”. Il pezzo si chiama “El día che Artigas se emborrachó” (“Il giorno che Artigas si ubriacò”), fa riferimento al primo liberatore uruguaiano, mitico eroe nazionale che morì in esilio in Paraguay, e finisce con questa strofa: “Si ubriacò, perché la guerra male gli andò / e si ubriacò, perché qualcuno lo abbandonò / si ubriacò, e la patria lo ringraziò / Whisky per i vinti!”.
In generale le parole sono carine e per giunta qui c'è la birra, così tutti ci siamo messi a ridere. Ma il Nero, attraverso i suoi occhiali colla montatura fine, con il gomito appoggiato al ginocchio, riflette preoccupato.
- La storia uruguaiana è stranissima, gli eroi della nostra storia sono stati tutti sconfitti con onore - dice. - Per la storia essere un trionfatore non è redditizio. Guarda Artigas, Aparicio Saravia, Leandro Gómez, Batlle Ordóñez. In generale, se si vince qui, è un guaio. Ma diventi un idolo. Guarda Pepe, per esempio. Metti l'altro pezzo che piace a me.
Evelina obbedisce e mette l'altro. Fuori la pioggia continua a scendere e dopo qualche minuto il Nero si alza, tira una cicca dalla finestra e se ne va a prendere la macchina per portarmi in albergo.
- Ti voglio raccontare una cosa, perché lui non la racconta mai - sussurra Isabel quando suo marito se ne va. E poi mi dice: - Al Nero era arrivato un risarcimento di ventimila dollari. A quelli che hanno avuto grandi ferite, a quanto pare arriva, e il Nero e la sua mandibola raggiungevano il punteggio sufficiente per entrare in quel club. Pensando al futuro - alle figlie, alle operazioni di chirurgia maxillo-facciale - lui aveva mandato i suoi dati. E da quando li ha mandati ha cominciato a dormire male.
Una sera, Isabel trovò suo marito che diceva: “non posso”.
- Non può accettare quei soldi. Mi ha detto: se li accettassi, se volessi un risarcimento, sarebbe come pentirmi. Io gli ho detto Nero, è il tuo corpo, sono le tue ossa, la mandibola rotta è la tua. Io non mi posso immischiare in questa cosa. Non accettare i soldi se non vuoi accettare i soldi. E lì si sarà sentito liberato, perché si è messo a piangere.
Isabel ha quarantasei anni, occhi celesti, capelli biondi: se ogni età fosse illuminata da una sua luce, si potrebbe dire che questa donna è illuminata dalla luce dei vent'anni. A questo penso, alla nobiltà del suo viso, quando il Nero suona il campanello per avvisare che è sul portone, che aspetta, in macchina.
Il ritorno in albergo avviene in silenzio.
La Avenida 18 de Julio, l'asfalto bagnato, il ritmo calante delle vie del centro: la città sembra un film muto; si sentono solo le gomme della macchina.
- Beh,- il Nero ferma la macchina. - l'ultima cosa che posso dire è che furono gli anni più belli della nostra vita. Non abbiamo mai fatto i nostri interessi. Abbiamo dato tutto. E adesso viviamo in un esercizio di interrogazione periodica con quel ragazzino che siamo stati a vent'anni. Io non voglio fare a sessant'anni cose che mi sarei vergognato di fare a venti. Voglio andarmene dalla vita senza amputare delle parti di me stesso. Forse agli altri compagni succede la stessa cosa.
Questa è l'ultima cosa che dice il Nero prima di salutare con un gesto asciutto, appena una pacca sulla spalla, e di lasciare aperta una domanda: se questa storia doveva essere su José Mujica, o sulla meraviglia collettiva che ha permesso che esista, con assoluta semplicità, José Mujica.
Questo testo, in qualche modo, ne è una lunga risposta.
articolo di Josefina Licitra (trad. Francesca Letizia Bonvicino) dal Blog di Jacopo Fo
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