Riflessioni di Luca Lafauci sul Coronavirus 1

Mi sto chiedendo, in questi giorni, cosa ci sia dietro al fatto che alcuni soggetti, anche giovani, si ammalino nonostante sembrino godere di un buono stato di salute e perché, invece, sembra esserci un numero altissimo di soggetti che non manifestano alcun sintomo. 
Un paese trasformato in un case-study, con tamponi a tappeto su tutti i 3mila abitanti: oggi arrivano i risultati sulla ricerca condotta a Vo’ Euganeo, raccolti in una lettera firmata da Sergio Romagnani, professore ordinario di Immunologia clinica dell’Università di Firenze, e indirizzata ai vertici della Regione Toscana. 
Lo studio, scrive il professor Romagnoni dimostra che “la grande maggioranza delle persone che si infetta, tra il 50 e il 75%, è completamente asintomatica, ma rappresenta comunque una formidabile fonte di contagio“. 
Dato che conferma l’importanza dell’isolamento e del distanziamento sociale: “Con l’isolamento dei soggetti infettati il numero totale dei malati è sceso da 88 a 7 (almeno 10 volte meno) nel giro di 7-10 giorni”. 
Questi dati, prosegue la lettera, forniscono due informazioni importantissime: “La percentuale delle persone infette, anche se asintomatiche, nella popolazione è altissima e rappresenta la maggioranza dei casi soprattutto, ma non solo, tra i giovani“. In secondo luogo, “l’isolamento degli asintomatici è essenziale per riuscire a controllare la diffusione del virus e la gravità della malattia”. 
 Fonte: sezione SCIENZA de "Il Fatto Quotidiano"

Una parziale (ma significativa) risposta l’ho trovata in questo articolo:

Enzo Soresi, primario emerito di pneumologia dell’Ospedale Ca’ Granda - Niguarda di Milano, superati gli 80 anni e tuttora in attività, ne ha davverro viste tante nella sua lunga e intensa vita di medico. Ne ha raccontato a più riprese anche nei suoi libri. Gli abbiamo chiesto di dirci la sua sull’epidemia da coronovirus.


Ecco la sua testimonianza.



Nel  1968 ho affrontato,  come assistente in  anatomia patologica presso l’Ospedale di Niguarda  l’epidemia della influenza denominata “Hong Kong” che fece circa 20.000 morti. Eravamo in tre assistenti  ed il carico di autopsie era di circa 15 ogni giorno. Le morti erano indotte, in prevalenza, da polmoniti batteriche che colpivano  pazienti  anziani,  affetti da bronco pneumopatie  croniche ostruttive (Bpco ) tipiche dei fumatori, da diabete, cardiopatie o semplicemente in  età avanzata. In quegli anni l’ospedale contava circa 2.500 letti e quindi in linea di massima si riuscì a sostenere l’impatto dei  ricoveri anche se evidentemente con difficoltà si salvavano i pazienti.  Il virus influenzale infatti induce una severa immunodepressione che favorisce in un secondo tempo la complicanza batterica polmonare con germi spesso resistenti agli antibiotici.
Quell’esperienza portò le case farmaceutiche ad investire sulla ricerca di nuove classi di antibiotici commercializzate poi negli anni successivi. Pur essendo, allora molto  giovane,  non ricordo un impatto sociale cosi devastante come sta avvenendo in questi giorni. La morte dei propri cari, in quell’anno, comunque ricoverati e curati, diventava ineluttabile ed accettata senza remore sulla efficienza  della sanità pubblica
Perché oggi è tutto così diverso? La pandemia in corso indotta da questo virus ha caratteristiche molto particolari che si possono così riassumere :
a ) elevata contagiosità al punto che si parla in Inghilterra di favorire l’immunità di gregge sacrificando una parte della popolazione. È il principio secondo cui la catena dell’infezione può essere interrotta quando un adeguato numero di persone avrà contratto il virus.  Nel caso del coronavirus si ipotizza il 66% della popolazione.
b ) insorgenza di polmoniti interstiziali ossia  complicanze polmonari sostenute da una liberazione di citochine flogogene  (alcuni tipi di interleuchine ed in particolare la IL6) nell’interstizio polmonare che il coronavirus induce. Quindi nessuna polmonite batterica da immunodepressione  ma una polmonite interstiziale che raramente viene indotta dai virus influenzali  stagionali e che invece in questo caso presenta  una relativa alta incidenza.  Questo tipo di polmonite, che non risponde a terapie antibiotiche di nessun tipo,  porta ad una progressiva insufficienza respiratoria che, se non supportata da adeguata ventilazione polmonare in area di rianimazione, porta all’exitus.
Ecco quindi l’impatto sociale completamente diverso rispetto al ’68
Il numero insufficiente dei letti di rianimazione sta portando ad una apparente morte per inadeguata assistenza sanitaria e quindi emotivamente, si suppone, che un nostro congiunto che poteva essere salvato muore per colpa di una mancata assistenza per mancanza di letti in unità intensive respiratorie.
Quindi di fronte ad una pandemia dove la quota di malati è relativamente bassa, si parla dell’1% dei contagiati, vi è un’elevata incidenza di morti per inadeguata assistenza? Dal Corriere del 15 marzo si riporta che su 156.000 casi positivi nel mondo ci sono a tutt’oggi 5.614 morti. Ma quanti di questi potevano essere salvati ?  Difficile rispondere ma sicuramente un elevato numero di questi deceduti era affetto da  patologie multiple  che non hanno consentito il recupero del paziente.  Ci tengo a precisare, inoltre, che, come pneumologo, in 50 anni di professione, le poche polmoniti interstiziali sostenute da un virus influenzale che mi sono capitate, nonostante  il tempestivo ricovero in unità intensiva sono tutte decedute e non si trattava in tutti i casi di pazienti anziani o defedati. Se ne deduce che la polmonite interstiziale di natura virale non è semplice da guarire.
Quali riflessioni?
Che se, con il senno di poi, i letti della rianimazione fossero stati adeguati, la morte, comunque ineluttabile,  sarebbe stata accettata  con più rassegnazione così come avvenne  nel ’68 .
Quali speranze?  
Una novità di questi giorni apre qualche speranza di possibile controllo della polmonite interstiziale e cioè un anticorpo monoclonale da anni somministrato, sottocute, ai pazienti affetti da artrite reumatoide,  malattia autoimmune scatenata dalla interleuchina 6 (IL6),  una delle citochine flogogene più  aggressive. Poiché nei pazienti che finiscono in rianimazione è proprio questa IL6 che porta alla insufficienza  respiratoria un uso tempestivo di  questo anticorpo, noto con il nome di Tocilizumab, potrebbe essere di possibile  aiuto. Le sperimentazioni sono in corso e  sembrano promettere bene.  La casa farmaceutica Roche si è resa disponibile a fornire il farmaco gratuitamente. Se questo trattamento risulterà efficace come è già  avvenuto, in qualche raro caso, in Cina ed a Napoli,  potrà  in prospettiva ridurre  il numero dei morti.
L’infiammazione
Nel mio ultimo libro, scritto con il coblogger Pierangelo Garzia e una squadra di specialisti, “Come ringiovanire invecchiando”, affrontiamo il capitolo della infiammazione come premessa  di tutte le malattie e racconto di un singolare caso clinico di una giovane paziente depressa in terapia con 4 farmaci antidepressivi per un tentato suicidio. Fra gli esami  ematologici, da me richiesti per valutare la sua condizione infiammatoria, c’erano la  IL6 e la proteina c reattiva,  entrambi risultati  a valori molto elevati. Usando l’anticorpo monoclonale Tocilizumab che  neutralizza l’IL6,  avrei potuto curare la sua depressione? Ma se questa donna di 56 anni contraesse il coronavirus partendo da una condizione infiammatoria così elevata sarebbe più esposta al rischio di una polmonite interstiziale ? Sicuramente sì ed ecco quindi come si potrebbero spiegare alcune morti in pazienti  relativamente giovani e senza fattori apparenti di rischio.
Come ridurre l’infiammazione?
In primis alimentazione povera di carboidrati, per assurdo la dieta chetogenica, tanto demonizzata sta diventando la dieta di maggiore prevenzione  contro le malattie .
Digiuno intermittente cioè  fare passare da 14 a 16 ore fra un pasto e l’altro almeno un paio di volte alla settimana questo ridà vita al sistema immunitario ed elimina i mitocondri danneggiati.
Attività fisica moderata, se non potete uscire organizzatevi in casa oppure fate 2 piani di scale (in salita) 4 volte al giorno, equivalgono a circa 8.000 passi.
Come integratori vit. C meglio da masticare 500 mgr due volte al giorno, glutatione, coenzima Q10, probiotici ed infine il mitico Kaloba, fitofarmaco che attiva il macrofago cioè la cellula dell’immunità innata in grado di neutralizzare virus e batteri.
Ma l’inquinamento gioca qualche ruolo nella diffusione di questo virus?
A questa domanda mi risponde Roberto Boffi, amico e collega dell’Istituto dei Tumori che da anni lotta contro vari tipi di inquinamento oltre che quello da fumo di sigarette: “Caro Enzo, secondo i risultati dei campionamenti effettuati a Wuhan dai nostri colleghi ed amici cinesi ed americani, il virus si  aggrega ai PM (poveri sottili) e più ce ne sono più diventano carriers di SARS – CoV-2 . In teoria, se non ci fosse inquinamento dovrebbe diminuire sicuramente pure la trasmissione.  Importante è però considerare che non sappiamo ancora per quanto tempo rimane attivo il virus nel PM”.  Va inoltre tenuto presente, aggiungo io,  che l’inquinamento induce infiammazione cronica  nelle mucose delle vie respiratorie e rappresenta quindi un fattore di rischio aumentato per le complicanze polmonari  indotte dal virus.
Concludo con una metafora calzante appena letta sul  sito  di Brain Circle e scritta da Massimiliano Sassoli de’ Bianchi, docente presso  il  Center Leo Apostel for Interdisciplinary Studies (CLEA) della Vrije Universiteit di Bruxelles:  “il coronavirus è un hacker  creato dalla natura per mostrare la vulnerabilità del nostro sistema prima che collassi completamente”.

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